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venerdì 31 agosto 2012

Winona Ryder, da Tim Burton a Tim Burton

Venezia 69, l'attrice Winona Ryder © Federico Roiter
La prima musa di Tim Burton è sbarcata a Venezia per l'anteprima di The Iceman. Insieme a Winona Ryder, il regista Michael Shannon e Ray Liotta.


Avrà anche passato la fatidica soglia degli “anta” ma il suo sguardo è ancora quello di Lydia, la ragazzetta dark alle prese con voglie d’Aldilà e soprattutto con il viscido Beetlejuice (1988). Sarà anche una donna bella che fatta, ma i suoi occhi hanno trasudano ancora di sincerità della giovane Kim, anima candida amica della creatura Edward mani di forbice (1990). E a dispetto della quiete elegante che trasmette, nell’immaginarmi i suoi pensieri rivedo sempre le difficoltà della Susanna di Ragazze Interrotte (1999).

Lei è Winona Ryder. Oggi è qui, a Venezia per l’anteprima di The Iceman, in compagnia di Ray Liotta e Michael Shannon. Io però già l’aspetto in Frankenweenie, il nuovo lungometraggio animato di Tim Burton, dove presterà la sua voce a Elsa Van Helsing.

Winona Ryder scende dall'auto per recarsi alla conferenza stampa © Federico Roiter
Venezia 69, Michael Shannon, Winona Ryder e Ray Liotta © Federico Roiter
Michael Shannon © Federico Roiter

giovedì 30 agosto 2012

Jonathan Kendrik da Mira Nair

Il fondamentalista riluttante - Jim Cross (Kiefer Sutherland) ammonisce Changez (Riz Ahmed
C'è aria "kendrickiana" nel Jim Cross di Kiefer Sutherland, co-protagonista del film di apertura della 69. Mostra del Cinema, Il fondamentalisa riluttante.


La 69° edizione della Mostra del Cinema di Venezia è stata battezzata con il film nella sez. fuori concorso Il fondamentalista riluttante (2012, di Mira Nair). Uno dei personaggi principali è l’alfiere del capitalismo aziendale Jim Cross interpretato da Kiefer Sutherland. L’attore londinese classe ’66, figlio d’arte di Donald, ha avuto e sta continuando ad avere una ricca carriera in televisione (vedi serie 24 e Touch) e sul grande schermo, iniziata questa dall'ormai lontano Young Guns (1990, di Christopher Cain). 

Della sua densa galleria di personaggi interpretati c’è un ruolo cult che lo ha reso leggendario, il fanatico marine tenente Jonathan Kendrick di Codice d'onore (1992, di Rob Reiner). E quello stesso sguardo feroce oggi è ritornato. Proprio nella pellicola che ha aperto il Festival veneziano. Imbufalito per la decisione del suo pupillo Changez Khan (Riz Ahmed) di non “tagliare” un’antichissima libreria di Istanbul poiché improduttiva, gli si rivolge contro intimandogli senza mezze parole di tornare al suo fottuto lavoro.

Vent’anni fa, in Codice d’onore (A few good men) quella stessa prepotente arroganza si scagliava gelida contro un suo mal capitato (quasi) collega. Lui era il tenente Jonathan Kendrick e insieme al colonnello Nathan Jessep (Jack Nicholson) formava una coppia di alto grado di folli militari stanziati a Guantanamo, Cuba, disposti a tutto pur di servire la Patria. 

Dopo aver constatato il decesso del soldato semplice William Santiago, l’avvocato tenente della Marina Daniel Caffee (Tom Cruise), dai modi decisamente più casual e molto poco marziali, gli si rivolge garbatamente, domandando: Tenente Kendrick, posso chiamarla John? E lui, togliendosi gli occhiali da sole, in mimetica e con i capelli rasati al minimo, risponde gelido: No, non può! 

E continuando poi nella sua follia nazionalistico-religiosa, spiega le ragioni di questa strana morte del soldato di fanteria: "Io credo in Dio padre e suo figlio Gesù Cristo, e proprio per questo posso dirle che il soldato Santiago è morto ed è una vera tragedia, ma è morto perché non aveva un codice di condotta. È morto perché non aveva onore, e Dio lo vedeva”.

Tenente Kendrick, posso chiamarla John? - No, non può!

Il fondamentalista riluttante - Jim Cross (Kiefer Sutherland) ammonisce Changez (Riz Ahmed
Codice d'onore - il tenente Jonathan Kendrick (Kiefer Sutherland

Il cinema di Kate Hudson e Jonathan Demme

69. Mostra del Cinema, l'attrice americana Kate Hudson © Federico Roiter
La verve malinconica di Kate Hudson nel film Il fondamentalista riluttante. L'arte del premio Oscar Jonathan Demme al servizio del musicista italiano Enzo Avitabile.

di Luca Ferrari

Mira Nair dirige Il fondamentalista riluttante (2012), storia difficile tra Pakistan e Stati Uniti nel prima, durante e dopo il crollo delle Torri Gemelle. I flash però sono tutti per lei. Kate Hudson, figlia d’arte (sua madre si chiama Goldie Hawn). Una nomination agli Oscar come miglior attrice non protagonista nel 2001 per il film Quasi famosi - Almost Famous (2000, di Cameron Crowe).

Una bellezza da fidanzatina d’America che la rende scelta ideale per commedie sentimentali modello Come farsi lasciare in 10 giorni (2003, di Donald Petrie) dove divideva il primo piano con il belloccio Matthew McConaughey. Cambio di prospettiva invece nella pellicola diretta dalla regista indiana, che ha affidato a Kate il ruolo della ricca artista tormentata Erica, incapace di amare Changez (Riz Ahmed), poiché ancora legata all’ex-fidanzato di cui ha causato la morte guidando in stato di ebbrezza.

Nella prima giornata della 69. Mostra del Cinema è stata l'indiscussa protagonista dei flash internazionali. Insieme a lei, il resto del cast del film Il fondamentalista riluttante, a cominciare dalla regista indiana Mira Nair e l'attore americano Liev Schreiber. Molto applaudito anche il regista premio Oscar Jonathan Demme (Il silenzio degli innocenti, Philadelphia), sbarcato in laguna per l'anteprima del suo documentario Enzo Avitabile Music Life.

69. Mostra del Cinema, l'attore americano  Liev Schreiber © Federico Roiter
69. Mostra del Cinema, la regista indiana Mira Nair © Federico Roiter
69. Mostra del Cinema, l'attrice americana Kate Hudson © Federico Roiter
69. Mostra del Cinema, l'attrice americana Kate Hudson © Federico Roiter
69. Mostra del Cinema, il regista americano Jonathan Demme © Federico Roiter
69. Mostra del Cinema, il musicista italiano Enzo Avitabile e Jonathan Demme © Federico Roiter

mercoledì 29 agosto 2012

Il fondamentalista riluttante, civiltà di confine

Il fondamentalista riluttante (2012, di Mira Nair)
L'11 settembre 2001 ridisegna le geopolitica e le relazioni umane. Le società vengono messe alle corde. Mira Nair dirige Il fondamentalista riluttante

di Luca Ferrari
 

Tu hai  preso una posizione, per me hanno deciso loro. Chi è in grado di sciogliere questo nodo a scorsoio che società, cultura, istituzioni e religione cercano continuamente di porci attorno alla nostra mente? E non c’è nazione che tenga. Nell’arte di plagiare la volontà degli Esseri Umani liberi, ognuno ha il proprio stile ma il fine è sempre lo stesso. Ingannare e sottomettere. Non è un caso che Il fondamentalista riluttante (2012), il nuovo film della regista indiana Mira Nair si apra con un’immagine dell’intero mondo formato da volti. Tutti insieme. Tutti accomunati dalla medesima sfida contro le dittature.

Something happens
. Something is happening. Something is gonna happen. Chi è davvero pronto a rompere la morsa dei preconcetti? L’umanità è ancora espressione di un mondo rabbioso che brama vendetta per una morte passata, recente o futura. Il fondamentalista riluttante (2012, di Mira Nair), film d'apertura della 69° Mostra del Cinema di Venezia, riaccende i riflettori sulla ferita più dolorosa della recente storia americana, gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001. Un tragico evento che ha cambiato totalmente la percezione degli stranieri in tutto l'Occidente.

Oggi come allora c’è chi crede che "arabo/musulmano" equivalga a terrorista. Oggi come allora c’è chi crede che "cristiano/euro-americano" sia solo sinonimo di assassino. Ma se oggi c’è ancora tanta ignoranza sull’argomento, le ragioni attingono anche da un presunto scontro ideologico che in molti (governi e media) si divertono a cavalcare. Un messaggio che arriva manipolato dalle multinazionali politico-economiche che decidono in base ai loro momentanei interessi.

Changez Khan (Riz Ahmed) è il fiore all’occhiello del nuovo che avanza. Immigrato pakistano di successo nella Wall Street d’oltreoceano che azzanna e stronca tutto ciò che non produce. A guidare la squadra, lo spietato Jim Cross (Kiefer Sutherland). La globalizzazione al suo top. Perfino la ragazza del giovane asiatico è americana, la fotografa nevrotica Erica (una Kate Hudson finalmente libera dalla facciata di fidanzatina yankee). 

Poi però l’equilibrio salta. Arriva l’11 settembre. Non importa il curriculum. Non importa il lavoro. Changez è un musulmano in terra statunitense. Il vaso pregiudizievole di Pandora si apre travolgendo poveri e ricchi. Il giovane torna nella sue terra d’origine ma il mondo pare scivolato in una pericolosa guerra quotidiana, alimentata solo da chi ha interessi a farci sguazzare nelle tinte sbiadite da cui facilmente estrapolare denaro. In questo turbine nessuno ne esce intatto, meno che meno il presunto giornalista Bobby Lincoln (Liev Schreiber) che sta indagando sul sequestro di un docente in Pakistan.

Ci sono alcune verità che ci mettono un po’ a emergere dice il protagonista, il docente pakistano Changez. Qual è la tua? Qual è la Vostra? Qual è la Nostra? Quanto siamo disposti a mantenerla sotto silenzio pur di continuare a vivere nelle nostre civiltà di confine? 

Ho assistito alla proiezione di Il fondamentalista riluattante e ho avuto un nodo allo stomaco per tutta la durata della pellicola. Dentro di me urlavo di dolore per come è il mondo. Per quello che è il mondo. Per come le vittime e i carnefici si scambino di posizione di continuo. E c’è sempre meno differenza. E non c’è alcuna volontà dall’alto dei manipolatori di porre un valido rimedio. Tocca a noi. A tutti noi. L'alternativa è il caos.

Entra nel mondo de Il fondamentalista riluttante

Il fondamentalista riluttante - Changez (Riz Ahmed)
Il fondamentalista riluttante - (al centro) Changez (Riz Ahmed) e Jim Cross (Kiefer Sutherland)

lunedì 27 agosto 2012

Venice Film Festival 2012, here I come

Lido di Venezia, inizia la 69. Mostra del Cinema © Luca Ferrari
Nessuna notizia ruffiana. Niente gossip. Su cineluk si scrive e si fotografa il cinema in modo serio. Cara 69. Mostra del Cinema, sto arrivando.

Ho una ferocia creativa maggiore di quando ho cominciato ha di recente dichiarato l’attore Mark Wahlberg alla rivista Ciak. E aggiungo io, "...e non ho alcuna intenzione di sprecarla". Manca davvero poco ormai per tuffarsi nell'atmosfera delle anteprime cinematografiche in lingua originale e successive conferenze stampa della 69° edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (29 agosto - 8 settembre). 

E ci sarà un occhio anche per loro, i fan. Spina dorsale del sistema. Un premio andrebbe assegnato anche a loro, soprattutto per quelli stoici che talvolta aspettano i divi per ore e ore sotto il sole. Uno dei momenti più belli? La mattina. Quando si è ancora tutti assonnati. L’odore dei croissant della piazzetta Lepanto al Lido di Venezia, sede del Festival. Il più comico invece è l'immancabile sfilata di pass che vengono sventolati tronfi a qualsiasi ora del giorno, e in qualunque luogo ci si trovi. Più se ne ha, e più ci sente importanti. Manco fossero agenti dei Servizi Segreti. Conteti voi.

Si comincia mercoledì 29 settembre alle h. 9 in Sala Darsena con il film d’apertura, Il fondamentalista riluttante (sez. Fuori Concorso) di Mira Nair (India, Pakistan, Usa, 128’, v.o. inglese/urdu s/t inglese/ italiano) con Riz Ahmed, Kate Hudson e Kiefer Sutherland. Tra conferenze stampe, giri nomadi e chissà cos’altro, alle 17.30 tocca al PalaBiennale per la proiezione speciale di Medici con l’Africa, di Carlo Mazzacurati (Italia, 89’, v.o. italiano/ portoghese s/t inglese/italiano).

Giovedì 30 agosto sarà una full immersion totale davanti al Grande Schermo. Si parte ancora una volta alle 9 del mattino, in Sala Perla, con The Iceman (sez. Fuori Concorso) di Ariel Vromen (Usa, 98’, v.o. inglese s/t italiano) con Michael Shannon, Winona Ryder, Chris Evans, Ray Liotta e James Franco.

Il tempo di ascoltare le parole dei big in conferenza stampa e alla 14.30 virata in Sala Perla per un tuffo nel passato con la sezione dei Classici: è il momento di Heaven’s Gate (1980) di Michael Cimino (Usa, 219’, v.o. inglese s/t italiano) con Kris Kristofferson, Christopher Walken, John Hurt, Sam Waterston e Isabelle Huppert. E per chiudere la giornata in bellezza, ancora in Sala Darsena, h. 19.30, con At Any Price (sez. Venezia 69) di Ramin Bahrani (Usa, 105', v.o. inglese s/t italiano) con Dennis Quaid, Zac Efron, Kim Dickens e Heather Graham.

Venerdì 31 agosto, alle h. 9 in sala Darsena, scatta la commozione per il re del pop, Michael Jackson (1958 – 2009), con il documentario Bad 25 (sez. Fuori Concorso) di Spike Lee (Usa, 123’, v.o. inglese s/t italiano). Nel primo pomeriggio, spazio ai sempre più ignorati diritti umani. Alle h. 15 infatti, nella grande sala delle Conferenze stampa, al secondo piano del Palazzo del Casinò (sala Perla 2), verrà proiettato il film denuncia, Mare chiuso, di Andrea Segre e Stefano Liberti, che documenta la tragedia dei profughi avvistati ma non soccorsi.

Seguirà un dibattito cui interverranno Paolo Baratta, Presidente della Biennale, Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, Maud de Boer Buquicchio, vice Segretaria Generale del Consiglio d’Europa, la Senatrice Tineke Strik, parlamentare olandese che ha condotto l’inchiesta sui 1500 naufraghi deceduti nel 2011 nel Mediterraneo, il Sen. Giacomo Santini e i due registi; a moderare  l'importante appuntamento, il noto giornalista e scrittore, Gian Antonio Stella.

Il resto si vedrà...

Lido di Venezia, inizia la 69. Mostra del Cinema © Luca Ferrari
Lido di Venezia, inizia la 69. Mostra del Cinema © Luca Ferrari

venerdì 24 agosto 2012

Ben Affleck, l’Argo della Storia

Argo (2012), di Ben Affleck
Una storia avvincente. Talmente folle che può essere solo la vera. Nell'Iran della rivolta Khomeinista la CIA ha un folle piano per salvare i propri agenti.

di Luca Ferrari

Penso che la mia storiella sia l’unica cosa tra voi e un’arma alla testa, dice l’agente segreto Tony Mendez (Ben Affleck) vuole risolvere una situazione disperata. Liberare dei concittadini americani scappati alla furia della rivolta durante la Crisi degli Ostaggi del 1979 a Teheran.

Quando gli studenti hanno assalito la loro ambasciata , sei di loro sono scappati da una porta secondaria trovando rifugio nella sede diplomatica canadese. Le Guardie della Rivoluzione però non ci mettono molto a scoprire che qualcuno manca all’appello, e inizia la ricerca. Casa per casa. Se li trovassero, potrebbero finire male. Occorre farli uscire dall’Iran, e subito. Ma come? 

La vicenda narrata dal regista di The Town (2010) è talmente folle che può essere solo vera. “La miglior cattiva idea possibile” venuta alla CIA è infatti quella di far passare i sei fuggiaschi per membri di una troupe cinematografica canadese, alla ricerca di paesaggi per la scenografia di un film fasullo dal nome Argo. E c'è bisogno che un uomo li guidi.

Distribuito dalla Warner Bros., il trailer della pellicola è già disponibile su Youtube in più lingue: il filmato, di due minuti abbondanti, è estremamente curato e con frasi azzeccate come “They weren’t making a movie. They were making History Non stavano facendo un film. Stavano facendo la Storia”. Ulteriore chicca, sottofondo musicale nella parte finale dell’immortale Dream on degli Aerosmith.

Sono passati più di trent’anni dalla presa dell’ambasciata americana a Teheran, e da entrambe le parti non è poi cambiato molto. Presidente democratico o repubblicano che sia, gli Stati Uniti sono rimasti gli stessi. Sceriffi del mondo ma senza più il colosso sovietico con cui vedere chi ce l’ha più lungo (e giocare a chi realizza più testate nucleari). 

Nemmeno la cura Obamesca ha prodotto grandi risultati dopo l’intossicazione Bushiana. Anche l’Iran è rimasto uguale. Dall’ayatollah Khomeini all’attuale Guida Suprema Ali Khamenei in coppia con il presidente Mahmud Ahmadinejad, si vede solo un governo oscurantista con il vizio di reprimere nel sangue qualsiasi voce di dissenso popolare. 

La brodaglia propagandistica anti-americana e del perenne nemico sionista vengono ancora smerciate per cercare un consenso perduto, e ottenuto solo con la minaccia, mentre la gente è sempre più affamata di libertà: vuole vivere in pace nella propria terra, senza dittatori casalinghi né stranieri.

Alla produzione di Argo, insieme a Grant Heslov e Ben Affleck stesso, c’è il premio Oscar, George Clooney. E lui, che sia regista, produttore o attore, appena ne ha l’occasione, si butta in politica. Good Night, and Good Luck (2005), Syriana (2005), Darfur Now (2007), Michael Clayton (2007) e il più recente Le Idi di Marzo (2011) danno un'idea di quanto sia forte l’interesse per la materia da parte dell’ex-Dr. Ross della serie televisiva E.R

In un anno in cui il popolo americano sarà chiamato alle urne per confermare o meno l'attuale inquilino della Casa Buianca, Barack Obama (di cui Clooney è sostenitore), e con i politici d’Israele che insistono a paventare guerra alla Repubblica Islamica dell'Iran, il contesto internazionale sembra involontariamente di estrema attualità per la pellicola, in arrivo in Italia in autunno. 

Una nuova crisi è dietro l'angolo, o è solo l'ennesimo gioco dei piani alti della politica internazionale per mettere sotto scacco (e nel terrore) l'umanità? Visto il tema delicato, la vicenda che Ben Affleck porta sul Grande Schermo non mancherà di suscitare interrogativi, riflessioni e polemiche. E se per una volta invece fosse un'occasione per ripensare agli sbagli da entrambe le parti?

giovedì 23 agosto 2012

Madagascar 3 - Ricercati a Venezia

Madagascar 3 – Ricercati in Europa (2012)
La nuova avventura di Alex il leone, Gloria l’ippopotamo, Marty la zebra e Melman la giraffa, sbarca al cinema all'aperto di Venezia.

di Luca Ferrari

Storie di valori, amicizia e verità. L’animale non è chi cammina a quattro zampe, ma chi si comporta in modo crudele con chiunque. E se a insegnarlo è la simpatia contagiosa di una zebra, un leone, un ippopotamo, una giraffa e tanti nuovi amici, allora si può solo che prendere appunti. Nell’anima e nel cuore.

Venezia, 22 agosto 2012. Mancano ancora tre quarti d’ora all’inizio dell’anteprima di Madagascar 3 – Ricercati in Europa (2012, di Conrad Vernon, Eric Darnell e Tom McGrath), e l’arena di campo San Polo, sede della rassegna “Estate al Cinema”, è già traboccante di spettatori e voci. Non c’è un filo d’aria. L’umidità non allenta la morsa. Ma è solo un dettaglio.

La gente sta già entrando, e la coda è un’ordinata striscia verticale e orizzontale che arriva fin quasi sotto i portici. Un flusso costante. Il pubblico è quanto di più eterogeneo si possa immaginare. Si vai dai classici piccini accompagnati dai genitori, agli adolescenti, passando per quella fascia di età intermedia cresciuta con Steven Spielberg e “trafitta” dalla rivoluzione animata made in Pixar & DreamWorks, fino agli over 50, che nipotino o non nipotino, questa pellicola non se la vogliono proprio perdere.

Arrivano le 9, ma le luci sono ancora accese e nessun trailer viene proiettato. Ci sono ancora posti (pochi) disponibili. Si continua a entrare, e nell'attesa c'è chi mangia una pizza, e chi qualche biscotto bucaneve. Una giovane invece è immersa nella lettura di Hunger Games (2008, di Suzanne Collins). Dallo staff chiedono di avere pazienza ancora per qualche minuto. La risposta, scherzosamente (e prevedibilmente) è un buuuu divertito, presto spodestato da un incitamento di tutta la platea con un “COMINCIA, COMINCIA, COMINCIA!!!” fino a che i riflettori si spengono, e modello concerto rock, la risposta del pubblico è un sonoro boato di gradimento.

Così, dalle acque lagunari, si passa agli scenari africani dove avevamo lasciato Alex il Leone (Ben Stiller), Gloria l’ippopotamo (Jada Pinkett Smith), Marty la zebra (Chris Rock) e Melman la giraffa (David Schwimmer), nel precedente Madagascar 2 (2008).

Nostalgia di casa per il leone buono. Sogna New York City. Sogna ancora la bella vita nello zoo della Grande Mela dove era la star. Inutile aspettare che i Pinguini tornino a prenderli. Bisogna agire. E allora, maschera e boccaglio in bocca, i quattro amici per la pelle si mettono in marcia per raggiungere i pennuti in smoking, nel Principato di Monaco, e prendere insieme il loro aereo. Un piano perfetto? Assolutamente, sì. Se non fosse che crollando sui tavoli da gioco di un casinò, fanno scoppiare il panico e l’intervento della gendarmeria locale con a capo la Crudelia De Mon del terzo millennio, il Capitano Chantel DuBois (la cui voce è data nell’originale dal Premio Oscar, Frances McDormand).

Non solo un poliziotto implacabile e segugio infallibile, ma una vera collezionista di teste di animali. E tra i suoi trofei manca solo il re della foresta: Melman dunque è avvisato. Scampato provvisoriamente il pericolo, la combriccola scapestrata riesce a nascondersi all’interno di un treno di animali da circo, facendo così la conoscenza della tigre Vitaly (Bryan Cranston), il giaguaro femmina Gia (Jessica Chastain) e il leone marino Stefano (Martin Short), la cui goffaggine e ingenuità di quest’ultimo ricorda non poco il bradipo Sid della saga dell’Era Glaciale, il cui quarto capitolo, “Continenti alla deriva” sta per sbarcare nelle sale cinematografiche.

Per non rischiare di ritrovarsi sbattuti giù in corsa, il Re di Varsavia (una figura umanoide sotto le cui vesti ci nascondono le scimmie) acquista il treno circense, confidando che lo spettacolo londinese vada a gonfie vele e un impresario americano li porti finalmente a New York. Ma le cose non vanno così, e la prima apparizione della nuova dirigenza a Roma si rivela un fiasco clamoroso.

L’idea allora è quella di ridare un nuovo smalto e veste al circo. Al diavolo le vecchie tradizioni, è tempo di fare di più. A dispetto della reticenza iniziale di Vitaly, l’entusiasmo dei newyorkesi è contagioso e lo show in Inghilterra stupisce. Ma quando tutto sembra andare a gonfie vele, la verità dei fuggiaschi americani viene a galla. Gli animali del circo si sentono usati. Non c’è cosa peggiore per chi ha l’animo puro di sentirsi manipolato.

I quattro tornano finalmente nello zoo, ma nulla è più come prima. Ormai hanno visto realmente gli spazi sconfinati dell’Africa. Ormai hanno conosciuto la libertà della vita vera, con rischi e pericoli. Non si può passare la propria esistenza sotto una campana di vetro. Se ne rendono conto quando ormai è troppo tardi, e le sbarre sono già davanti a loro. Ma la vera amicizia sa andare oltre, e trionfare sopra ogni cosa. Dal circo allo zoo di Central Park, il passo è breve, e la riscossa è cominciata, chiudendo anche i conti una volta per tutte con la crudele Chantel. Nel più classico e delicato happy end, il pubblico veneziano tributa la pellicola con un fragoroso applauso finale. E oggi si fa il bis. 

Madagascar 3 – Ricercati in Europa (2012), il giaguaro Gia
Madagascar 3 – Ricercati in Europa (2012), il capitano Chantel DuBois
Madagascar 3 - l'arrivo a Montecarlo di Melman, Alex, Marty e Gloria

mercoledì 22 agosto 2012

Quentin Tarantino, Django con riserva

Quentin Tarantino sul set del western Django Unchained
Troppo splatter e sbruffone alle volte. Il regista Quentin Tarantino conosce alla perfezione le regole dello show biz e le sfrutta a suo piacimento.

di Luca Ferrari

È arrivato a un punto tale della propria carriera (già da un pezzo ormai) che sa di poter fare ciò che vuole. Costruisce puzzle incredibilmente pazzeschi unendo generi impossibili, con facce di attori che siamo abituati a vedere in ruoli totalmente diversi. Un sarto della celluloide digitale. Un artigiano della telecamera.

Il risultato non sempre è troppo convincente. Ma ci sa fare. È  indubbio. In Bastardi senza gloria (2009) ha letteralmente lanciato nell’Olimpo degli attori lo sconosciuto (al grande pubblico) austriaco Christoph Waltz, oggi tra i personaggi più richiesti e protagonista insieme a Jamie Foxx e Leonardo DiCaprio del suo nuovo lungometraggio di prossima uscita, Django Unchained.

Il regista dichiaratamente innamorato del cinema sta tornando. È già tornato. Ho iniziato a dubitare da un pezzo dei film di cui le riviste specializzate parlano ossessivamente, ma questo di certo non m'impedirà di essere in prima fila quando sarà il momento della nuova pellicola di Quentin.

venerdì 17 agosto 2012

Mare Chiuso, emergenza Esseri Umani

Mare Chiuso (2012, di Andrea Segre e Stefano Liberti)
SOS esseri umani. Andrea Segre e Stefano Liberti raccontano il dramma dei migranti in Mare Chiuso, documentario presentano alla Mostra del Cinema.

di Luca Ferrari

Niente commedia. Niente finzione. Non esiste orrore immaginato da John Carpenter o Eli Roth che sia, per narrare ciò che troppo spesso accade nella realtà quotidiana. Qualcuno però va oltre. Non si droga d’indifferenza e racconta il dramma. Alla 69° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, venerdì 31 agosto a partire dalle h. 15, verrà proiettato il documentario Mare Chiuso (2012), di Andrea Segre e Stefano Liberti.

Storie di uomini, donne e bambini in fuga da guerra e povertà, lasciati morire. E il racconto di pochi sopravvissuti non può e non deve rimanere solo un momemto di costernata riflessione. Scoglio da dove prendere il largo per impedire questo mimetizzato e continuo crimine contro l'Umanità.

Nel 2011 il Nordafrica è stato attraversato da rivolte nazionali. La gente ha paura. Molti scappano. Iniziano massacranti odissee fino all’ultima parte del tragitto per raggiungere le coste italiane. Non sempre chi s’imbarca arriva a destinazione. Grazie alle testimonianze dei pochi superstiti, di questi “viaggi della speranza” sono state accertate almeno 1.500 (millecinquecento) vittime.

Ma quanti giacciono in fondo al mare senza che nessuno abbia detto nulla? Senza che nessuno abbia agito? Si può leggere qualcosa al riguardo nel drammatico I fantasmi di Portopalo. Natale 1996: la morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia (2004, Arnoldo Mondadori Editore), scritto dal giornalista cagliaritano Giovanni Maria Bellu. È un fatto che in Italia come in altre nazioni le leggi sul dovere di accoglienza dei profughi non vengano rispettate.

Marzo 2011. Un barcone alla deriva con 72 profughi proveniente dalla Libia, allora ancora sotto la dittatura del presidente Muammar Gheddafi (1942-2011), viene localizzato da mezzi militari che perlustrano quel tratto di Mar Mediterraneo, ma nessuno alza un dito. Il bilancio è catastrofico: 63 morti, 9 sopravvissuti. Ed è appunto su questo tragico fatto di cronaca che il lavoro cinematografico di Segre e Liberti accede i riflettori.

Dopo la proiezione del documentario (inizio h. 15), che si terrà nella sala grande delle Conferenze stampa al secondo piano del Palazzo del Casinò (sala Perla 2), prenderà il via un dibattuto organizzato dal Consiglio d’Europa sul tema dell'emigrazione e a cui presenzieranno:
  • Paolo Baratta, Presidente della Biennale
  • Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia
  • Maud de Boer Buquicchio, vice Segretaria Generale del Consiglio d’Europa, 
  • Tineke Strik, senatrice e parlamentare olandese che ha condotto l’inchiesta sui 1500 naufraghi deceduti nel 2011 nel Mediterraneo
  • Giacomo Santin, senatore
  • Andrea Segre, regista
  • Stefano Liberti, registta 
  • Gian Antonio Stella, giornalista e scrittore
Un grido d’aiuto lanciato e nessuna risposta. Perché? Un urlo disperato e nessuna mano tesa. Perché? E il dramma e lo sconforto non sono solo figli dell’indifferenza. Talvolta capita anche di fare il massimo e sentirsi comunque l’amaro in bocca. Tra i molti volontari che nel 2011 misero la propria professionalità al servizio dei diritti umani e in questo caso del Corpo Militare della Croce Rossa, ci furono anche i veneziani Gianluigi Da Campo, Dirigente Medico dell’Unità Operativa Complessa di Ortopedia e Traumatologia all’Ospedale Civile di Venezia, e l’infermiere professionale Andrea De Rossi, strumentista di Sala Operatoria, partiti alla volta dell’arcipelago siciliano delle Pelagie.

“In due settimane di permanenza gestimmo più di 40 sbarchi, con equipaggi che andavano da 100 ad anche 1.200 persone” ricorda il chirurgo, “Soprattutto donne, molte delle quali incinte, e bambini. Gente disperata. Fanno anche 30 ore di navigazione tutti stipati a bordo di imbarcazioni malconce in condizioni di sopravvivenza estrema”.

Durante una difficoltosa operazione di salvataggio effettuata in piena oscurità oltre tutto operando su di un terreno affilato e pieno di anfratti, i soccorritori, grazie a un notevole lavoro di cinque ore senza sosta, riuscirono a trarre in salvo 577 cittadini di nazionalità africana. Oltre a questi, il referto finale parla anche di due casi di annegamento evitati, quattro casi di ipotermia trattati con successo, un ospite con frattura biossea di gamba stabilizzato e la messa in sicurezza di vari bambini e tre gestanti al 9° mese di gravidanza.

“Se da un lato rimasi molto toccato dal clima di solidarietà e gemellaggio umano tra personale sanitario, militare e cittadini nel momento più drammatico dell’operazione”, ricorda Da Campo, “non posso dire lo stesso dell’Europa. L’unità è tutta sulla carta. Ci hanno lasciato soli a gestire una crisi umanitaria di portata internazionale. Migliaia di esseri umani in grave difficoltà sono stati del tutto ignorati”.

E questa è una storia. Chissà quante ce ne sono che vengono sepolte da servizi sull’ultimo ristorante per cani, o da ordini precisi venuti da chissà quale piano altro (..). E in tutto questo, nessuno ricorderà quegli uomini e donne spariti nel nulla. E in tutto questa, che cosa fanno le Istituzioni? E in tutto questo, che cosa può fare la Società Civile?

L’appuntamento con i Diritti Umani è Venezia alla Mostra del Cinema venerdì 31 agosto con il documentario Mare Chiuso. If you want to be hero, well just follow me...

Lampedusa (Ag), l'imbarcazione su cui viaggiavano i migranti © Gianluigi Da Campo & Andrea De Rossi
Lampedusa (Ag), Gianluigi Da Campo e Andrea De Rossi
i registi Andrea Segre e Stefano Liberti
appuntamento con Mare Chiuso (2012, di Andrea Segre e Stefano Liberti)

martedì 14 agosto 2012

The Lady (2011), Venezia applaude Aung San Suu Kyi

The Lady - il coraggio di Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh Choo-Kheng)
La forza delll'orchidea d'acciaio Aung San Suu Kyi, opposta con l'arma della nonviolenza alla brutale dittatura birmana. The Lady (2011, di Luc Besson).


Metà film, metà documentario. Qualche lungaggine eccessiva nella vita familiare e un finale sbrigativo che ha saltato in toto le proteste dei monaci buddisti nel 2007 sedate nel sangue così come le ultime farse della dittatura birmana nei suoi confronti. Luc Besson dirige The Lady (2011), sull’attivista birmana per i diritti umani Aung San Suu Kyi, interpretata dall'attrice cino-malese Michelle Yeoh Choo-Kheng

Il regista di Leon (1994) e Il Quinto Elemento (1997) ha realizzato un film che non passerà alla storia per la resa complessiva, ma questi sono dettagli da cronaca. Irrilevanti dinnanzi al suo significato. In questa pellicola viene raccontata la storia di una delle protagoniste assolute della storia contemporanea, che ha sacrificato la sua stessa vita privata senza essere uccisa sebbene rimasta agli arresti domiciliari per vent’anni.

Una storia questa che andrebbe studiata molto di più di certi assassini che continuano a insanguinare le pagine dei libri di storia così come le piazze di mezzo mondo grazie ai loro eredi. Una storia questa, che insieme a quelle di Nelson Mandela, Gandhi e altri personaggi ancora, andrebbe molto più approfondita fin dall’età scolare, instillando così nell’anima e nel carattere della gente il sentimento di libertà e il desiderio di lottare per essa.

Ci sono popoli che chiedono ma non fanno nulla per agire di conseguenza. Ci sono popoli al contrario che sono scesi nelle strade affrontando i mitra puntati ad altezza uomo. E di fronte alla dittatura più brutale nessuna azione impedirà che il grilletto venga premuto, eppure alcuni restano. Vengono sbattuti in galera, e torturati.

L’impegno di Aung San Suu Kyi è stato totale. La donna passa attraverso i fucili puntati e il suo gesto diventa leggenda. Il popolo inizia a raccontare. Gladiatore moderno che sfida un impero. Besson entra nel sostegno del marito Michael (David Thewlis), negli sguardi dei due figli Michael e Kim, lontani per anni dalla madre, non sapendo nemmeno se l’avrebbero più rivista. Solo il più giovane appare un po' infastidito quando il padre è ormai in fase terminale per un cancro alla prostata. 

E nonostante la sua incredibile forza di volontà, la donna sembra quasi impazzire quando, durante la consegna del Premio Nobel per la Pace nel 1991 che segue a distanza con la radio nella sua prigionia casalinga in Birmania, salta la corrente. Poi, nel sentire la voce del figlio maggiore che parla di quello che sta facendo, si commuove fino alle lacrime.

L'intento di The Lady è palese. Non è la celebrazione "dell'Orchidea d'Acciaio". È la denuncia di un massacro su cui nessuno ha voluto fare niente. Nessuno a parte Aung San Suu Kyi e il popolo disarmato. E come in Birmania la Cina è stata lo sponsor del sangue sgorgato a fiotti, anche gli altri "democratici" membri permanenti con diritto di veto alle Nazioni Unite agiscono come e quando vogliono.

Analogo discorso per la tragedia che stiamo vivendo in diretta in Siria, dove la farsa degli equilibri geopolitici sta condannando il popolo a un massacro genocidario indiscriminato nell’indifferenza generale, con i movimenti pacifisti (…) presumibilmente pronti a scendere piazza solo e se il mondo occidentale interverrà militarmente contro il presidente Bashar al-Assad.

The Lady (2011) di Luc Besson non è che l’inizio. E quell’applauso uscito dal cuore dagli spettatori alla rassegna all’aperto Estate al Cinema in campo San Polo, a Venezia, non può e non deve spegnersi con la fine della proiezione. La vera democrazia non è un’eredità né un pezzo di carta, perché come ci ha fatto vedere nel suo film il regista transalpino, chiunque può prendere quel foglio e stracciarlo. La vera democrazia la si (ri)conquista giorno dopo giorno. Ogni giorno. La libertà vale più di ogni altra cosa al mondo.

Il trailer di The Lady

The Lady - Aung San Suu Kyi (Yeoh Choo-Kheng) da forma alla protesta nonviolenta
The Lady - Aung San Suu Kyi (Yeoh Choo-Kheng) sfida i fucili puntati

lunedì 13 agosto 2012

Gérald Morin, "Io e Federico Fellini”

La dolce vita (1960), la celebre scena nella Fontana di Trevi tra Marcello Mastroianni e Anita Ekberg
Quattro chiacchiere con un pezzo di storia della settima arte: Gérald Morin, assistente del maestro Federico Fellini dal 1971 al 1977.

di Luca Ferrari
 

“Mentre da un Luchino Visconti si sono formati aiuto-registi che divennero grandi registi come Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi o Franco Zeffirelli, da Federico Fellini non c’è scuola. Il suo è un pianeta a se stante. Non c’è una trasposizione della società come tale. È uno sguardo su lui stesso vivente all’interno di un mondo”. Inizia così il racconto di Gérald Morin, assistente del regista italiano negli anni ’70.

Nella capitale del Canton Vaud, sulle sponde del lago di Ginevra, c’è di che rimanere deliziati dalla placida quiete a misura d’uomo che si può respirare. Dalle passeggiate nel Parco Mon-Repos insieme a qualche scoiattolo tra sequoie e tulipani, a quattro chiacchiere con cigni e gabbiani nei presso della Tour Haldimand.

Gérald Morin, assistente di Fellini dal 1971 al 1977, nacque a Losanna. Pur rimasto solo per i primi quattro anni di vita, l’imprinting fu fatale. E in età adulta continuò a tornarci. Molte volte, anche insieme all’amico regista italiano. E nel 2011 la capitale del Canton Vaud e dell'omonimo distretto ha tributato alla Cineteca una grande retrospettiva integrale dei 24 film del Maestro e nel Museo della Fotografia un’esposizione in omaggio al regista di Amarcord.

Un viaggio attraverso fotografie, disegni, locandine, giornali, documenti ma anche spezzoni di film inediti, provini, scene tagliate, filmati amatoriali, making of, attualità d’epoca e interviste.

Il XX secolo è stato definito la Fabbrica delle Immagini. Un universo rivoluzionario. E nessuno meglio di un cineasta ha potuto attraversare da protagonista questa realtà. Entrare nella mente di un grande regista, ma soprattutto artista, è un’impresa ardua. È come passare in un’altra dimensione. Pago dell’esperienza Dantesca, mi affido anch’io a una guida.

Gerald Morin, il cinema e Losanna. Cosa vi unisce? 
È una piccola città provinciale che non si prende più di quello che è, anche se ha una presenza internazionale notevole e allo stesso momento c’è un ricco mondo naturale. Un luogo dove poter coltivare rapporti umani. Lo stesso Fellini amava molto questo suo aspetto.

Se dovesse scegliere un’immagine del suo rapporto lavorativo con Fellini, cosa le viene in mente? 
Se non sapeva come girare bene una scena, Federico chiamava in causa tutti. Al truccatore diceva che così l’attore non andava bene, allo scenografo faceva cambiare il fondo della scena, al direttore della fotografia la luce, e quando tutti erano occupati, chiamava il direttore di produzione sostenendo che non potesse girare perché non c’è nessuno sul set.

Chi era Federico Fellini? 
Un uomo di relazioni. Lui non girava non tanto per fare un film. Con molta gente instaurava rapporti privilegiati. Lui decideva che cosa condividere e che cosa no, ma quando aveva davanti qualcuno, dava sempre la sua presenza completa. Per Fellini la cosa importante era preparare il film per essere in relazione con un’equipe. Per scoprire la gente. Se la preparazione durava vent’anni era l’ideale. Anche senza girare il film. Era un uomo più legato alla gente che ai luoghi, che per lui era fondamentale fossero luoghi abitati.

Cinema, luoghi e ispirazione. 
Pensando a celebri pellicole come Vacanze romane (1953) di William Wyler, Stromboli terra di Dio (1949) di Roberto Rossellini, fino ai più recenti Vicky Cristina Barcelona (2008) di Woody Allen, si capisce che il posto è molto importante. Il luogo diventa personaggio. E quando ciò avviene, diventa qualcosa che trasforma le persone come il deserto o l’alta montagna (vedi anche il recente The burning plain, di Guillermo Arriaga con Charlize Theron, ndr). Molto dipende dal modo di narrare. Nel caso di Fellini, quando girò La dolce vita (1960), Satyricon (1969), Roma (1972) e Intervista (1987), fece quattro film parlando della città abitata. I casi più interessanti sono quando i personaggi sono legati ai luoghi e a una cultura.

Esiste un’eredità felliniana? 
Fellini era un concentrato di sensibilità creativa molto personale. Un’autobiografia permanente. Aveva un passo troppo personale in cui nessuno poteva entrare nei suoi panni. Certi registi come Martin Scorsese o Emir Kusturica hanno carpito l’essenza felliniana nel modo di raccontare. Ci mettono il loro essere.

fotografi attendono il Maestro Fellini 
ciak,, si gira
Marcello Mastroianni 
Giulietta Masina
La dolce vita (1960), il bacio tra Marcello Mastroianni e Anita Ekberg 
Fellini e Morin sul set del film Casanova (1976)

venerdì 10 agosto 2012

L'oscuro e forzuto Bane

Il cavaliere oscruro_Il ritornp - Batman (Christianl Bale) abbattuto da Bane (Tom Hardy)
Da una parte un miliardario mascherato-difensore dei più deboli, dall'altra un pazzo forzuto. Ma del commissario Gordon nessuno parla mai?

di Luca Ferrari

Va bene, lo ammetto. Sarà che qualsiasi giornale di cinema, o presunto tale, s’ingrossi da mesi ormai straparlando e incensando il terzo capitolo della saga dell’uomo-pipistrello di Christopher Nolan e che ora che arriverà sullo schermo ne sarò talmente pieno che mi risulterà deludente, comincio ad averne veramente le scatole piene del famigerato Bane (Tom Hardy). 
Mentre infatti di Batman si sprecano psicologi della porta accanto a comprendere la psiche di un miliardario che si traveste da giustiziere mascherato, nessuno analizza un pazzo fuori di testa che vuole letteralmente distruggere una città e ammazzare il suo difensore.

Mi dica sig. Bane, per caso Bruce Wayne le ha rubato la scena? Avrebbe voluto lei essere il difensore di Gotham City e quindi ha ripiegato sul rovescio della medaglia? Da dove le nasce questa sete di distruzione?

C’è poi un altro dettaglio di cui in Italia non si può parlare previa etichetta immediata. Chiunque abbia un minimo di attaccamento al senso di nazione o rispetto della legge, viene inspiegabilmente tacciato di “fascismo”, quindi per logica deduco che il “comunista” sia quello che venderebbe la propria casa al primo venuto, possibilmente dall’ex-cortina di ferro. 

Certo le eloquenti immagini di Genova 2001 non hanno fatto un gran spot delle Forze dell’Ordine, ma scarlattare un intero sistema forse è un po’ eccessivo. James Gordon (Gary Oldman) viene messo da parte come la classica scarpa vecchia. E nel modo di mettere da parte un poliziotto che ha dato la propria vita per stare dalla parte dei più deboli, si evidenzia la linea di questo mondo che ti usa e ti sfrutta finché ne ha bisogno, salvo poi correre a piangere se le cose si complicano di nuovo.

Divisa, tunica o mantello che sia, per compiere qualcosa di eroico o semplicemente per combattere ogni minima ingiustizia, non c’è bisogno di tante maschere. A qualcuno si. Beh, allora qua la mano.

In conclusione, ho l’impressione che The Dark Knight Rises (2012) abbia molte botole nascoste e che il regista non abbia lasciato troppe tracce. Moderno labirinto Shininghiano, tocca a noi cercare la nostra strada per non lasciare che anche il minimo grido di sofferenza si tramuti in un silenzio assordante, o peggio in un sibilo d’odio e di distruzione di massa.

giovedì 9 agosto 2012

Desperately Missing Cinema

Dead Man (1995)
Chiudono le videoteche. Chiudono i cinema. In Italia come all’estero. I festival assomigliano sempre di più a esibizioni per mostrare chi può far sfilare (e pagare) l’attore più famoso e il film denso di effetti speciali.

di Luca Ferrari

Se andiamo avanti di questo passo, il 3D inghiottirà anche le strade meno idonee. Come nascono oggi i Quentin Tarantino? Scaricando film in ogni ora del giorno. Creando umanoidi in grado di elaborare scenografie autistiche capaci solo di celebrare se stesse senza alcuna pretesa di assomigliare alla vita vera. Adesso viviamo l’epoca del filone oscuro-supereroico, delle commedie politically non correct. Ci si adegua o si è fuori. La tecnologia moderna ci ha reso scadenti registi di ripetitive opere prime. Eppure non era così. Eppure il mio viaggio non è sempre stato così.

Prima c’era stato Point Break - Punto di rottura (1991, di Kathryn Bigelow), poi The Crow (1994, di Alex Proyas), quindi Trainspotting (1996, di Danny Boyle), Dead Man (1995, di Jim Jarmusch) e il Titatic (1997) di James Cameron. La mia esperienza davanti al Grande Schermo si poteva contare su una mano. Mancava qualcosa. Qualcosa che mi facesse credere che quello che vedevo non fosse solo un viaggio nella fantasia di qualche visionario regista, ma l’apoteosi di una realtà prima sognata, e poi creata nel modo più "spettacoloso" possibile. È accadduto anche quello. Shakespeare in Love (1998, di John Madden) prima e Moulin Rouge (2001, Baz Luhrmann) poi, fecero saltare le ultime barricate. 

“…Il mondo vorrebbe solo un’unica grande bolla per ogni giorno e pronta per ogni sentimento in questo cielo appiccicato alle stelle/… In ogni direzione con le stesse possibilità ora potrei comportarmi da ribelle dannato e accendermi una sigaretta ma ho la convinzione di esser qualcos’altro/… nella staticità di un dialettare tra la buonanotte e addii, questo specchio è continuo come lo splash di una pozzanghera sotto i miei piedi, e ora vedo un qualcosa che non suscita ilarità  né disprezzo…”

Hai del tabacco?

“…Non ho pianto, ho solo versato lacrime/… Nello scegliere tra una promessa e un respiro (il fato), ho accantonato cuscini squarciando descrizioni fin troppo corrispondenti a qualcosa che non  è più nemmeno animazione/… brandelli di un biglietto recapitati da una sedia in disuso/…

Conosci le mie poesie?...

mercoledì 8 agosto 2012

An Unfinished Life (2005), Il vento del perdono

Il vento del perdono (2005, di Lasse Hallström)
Storia umana dove il futuro della nuova generazione chiede spazio tra i rimorsi-rancori dei "grandi" sulle ali de Il vento del perdono.

Nell’arrugginito meccanismo familiare nonno-mamma, tra un uomo logorato dalla perdita del figlio e il suo irreceuperabile astio verso la nuora che ritiene responsabile, una bambina chiede consapevolezza e verità. Lasse Hallström (Buon compleanno Mr. Grape, Chocolat, Il pescatore di sogni) dirige An Unfinished Life - Il vento del perdono (2005).

Dopo anni di distanza il burbero Einar Gilkyson (Rober Redford) si ritrova davanti a Jean (Jennifer Lopez) insieme alla figlioletta, nonché sua nipote Griff (Becca Gardner). Einer vive insieme all'amico Mitch (Morgan Freeman). Questi ha il corpo e mezza faccia coperta da cicatrici. Il ricordo "visibile" degli artigli di un orso. Gli sfregi interiori di Einar però sono peggiori. Non se ne cura. Non li cura.

Einar vive nel risentimento. La prematura perdita del figlio richiede un colpevole (Jean). C’è qualcosa d’altro che brucia nelle carni di Einar. E il saggio Mitch che a stento si muove, parola dopo parola, pizzicotto (interiore) dopo pizzicotto, glielo fa venire a galla.

Sappata da una sua precedente e violenta realazione, Jean ora ne ha iniziata una nuova con lo sceriffo Curtis (Josh Lucas), il tutto mal sopportato dal suocero, e alla fine la donna sbotta ed esausta gli grida in faccia: Vuoi un colpevole? Eccomi. Stavamo andando a un rodeo e ci siamo cappottati sei volte. Guidavo io, e mi sono addormentata”. Ma anche Einar ha un segreto. Quando l’orso attaccò Mitch, lui era troppo ubriaco per fare qualcosa. Perso nell’alcol per sedare il dolore.

Seppur passati sette anni, Redford ha ancora addosso un po’ di quella poetica malinconica di Tom Booker, il protagonista del film L’uomo che sussurrava ai cavalli (1998), di cui lui stesso fu anche regista. Ma se nella pellicola tratta dall’omonimo romanzo di Nicholas Evans era sì deciso ma delicato, qui c’è poco tempo per i complimenti. È rozzo. Un uomo di vecchio stampo. E se c’è da difendere qualcuno dai modi bruti e offensivi, come succede all’amica Nina (Camryn Manheim) caduta nella baldanza alcolica di due giovinastri, nessuna frase di circostanza politically correct, ma una bella caffettiera in faccia e una minaccia affilata alla gola.

E alè, tutti a far colazione tranquilli. Quando poi l'ex-fidanzato di Jean, Gary (Damian Lewis), arriva in paese per riprendersela e le mette le mani addosso per l’ennesima volta prendendo poi in consegna anche la figlia, il cowboy non sente più ragioni. Prima spara alle gomme col fucile, poi affonda i pugni sulla sua faccia. Al resto ci pensa la polizia. Giustizia intanto è stata fatta. E la vita adesso può ricominciare.

Jennifer Lopez glamour. Jennifer Lopez cantante. J. Lo. Dicano quel che vogliono, ma quando l’attrice statunitense di origine portoricana si è calata in ruoli drammatici (Via dall'incubo, Bodertown), ha sempre raccolto consensi. A fare da sfondo alla pellicola, i verdi spazi della British Columbia, la provincia più occidentale del Canada, anche se nel film viene presentata come lo stato americano del Wyoming.

Agli uomini e donne si chiederebbe soltanto di goderne la bellezza invece di intervallare le proprie pulsazioni con anacronistici rancori che chiedono soltanto una degna sepoltura. Il dialogo umano è la sola strada per cambiare le vite del mondo. E alla fine del film, non sono solo i protagonisti gli unici a saperlo.

Il vento del perdono - (Jennifer Lopez) e Griff (Becca Gardner)
Il vento del perdono - Mithc (Morgan Freeman) ed Einar (Robert Redford)