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giovedì 11 aprile 2013

Il figlio dell'altra, People Have The Power

Il figlio dell'altra (2012, di Lorraine Levy)
Un banale esame del sangue prima dell’arruolamento militare fa emergere una impensabile realtà per due famiglie di Israele Palestina Il figlio dell'altra (2012, di Lorraine Levy).

Nel 1991, durante l’ennesimo scontro tra Israele e Territori Palestinesi, Orith Silberg (Emmanuelle Devos) e Leïla Al Bezaaz (Areen Omari) partorirono nel medesimo centro e durante la fuga dall’ospedale il personale medico scambiò i neonati. Per diciotto anni Joseph (Jules Sitruk), arabo, ha vissuto a Tel Aviv come un normalissimo cittadino ebreo mentre Yacine (Mehdi Dehbi), israeliano, ha passato l’intera infanzia e adolescenza in Palestina tra controlli sul muro e viaggi in Francia per diventare un giorno un dottore.

Ora che la verità è emersa, che cosa si fa? Si beve un caffè? Si fuma una sigaretta? Si lava la macchina nel cuore della notte? Si continua a fare il proprio lavoro? Si, esattamente questo. All’inizio per lo meno. Poi inevitabilmente qualcosa cambierà. Qualche saluto tirato. Qualche equilibrio (s)fo/erzato. Qualche carezza interiore. Qualche gesto che nessun trattato di logica o filosofia applicata sarà mai in grado di comprendere davvero. Il figlio dell'altra (2012, di Lorraine Levy).

Israele e Palestina. Una tragica storia infinita cui il mondo occidentale e l’Europa in particolare ha la responsabilità maggiore. Troppa vergogna per accettare di aver avuto dentro sé l'atroce piaga del nazismo (anche se per i macelli e genocidi in Nord America, Africa e Sudamerica non c’è stato lo stesso mea culpa) e così hanno portato il popolo ebraico, ancora traumatizzato dalla follia hitleriana, nella loro terra d’origine.

E nella miglior tradizione dei Ponzio Pilato, il nuovo esodo ebraico viene condotto senza pensare alle possibili conseguenze, o forse in modo più subdolo e calcolato, è stato tutto voluto. Tanto sarà lontano, quindi chi se ne frega. Funziona sempre così. Può anche scatenarsi l’inferno, l’importante è che sia a debita distanza. O in certi casi pure vicino (il genocidio in Bosnia), l’importante è che non sia fondamentale per l’economia delle stelline giallo-azzurre.

Sono passati decenni nell’ingiusta follia israelo-palestinese. Un orribile muro circonda una nazione. Quando saremo vecchi (alcuni di noi) e sarà passato un secolo dalla fine della II Guerra Mondiale, ci sarà ancora. O magari no. Forse la gente farà capire alla politica opportunista che non basta il cemento per dividere e affossare per sempre lo spirito dell’uomo e la sua lotta di giustizia ed eguaglianza. 

Lo stesso “braccato” Roberto Saviano ha ribadito il concetto, di avere più fiducia nei suoi lettori che non in se stesso. People Have The Power cantava Patty Smith. Si, la gente ha la forza di cambiare. Iniziano subito a farlo le due madri. Unite dal dolore di poter vedere andare via un ragazzo che hanno amato per 18 anni come il loro legittimo figlio e sapendo che il vero frutto del loro amore è stato lontano per tutto questo tempo.

La politica non asciuga le lacrime né mette un cerotto su di una sbucciatura. La politica non resta in piedi fino a notte tarda quando per la prima volta andiamo a una festa. La politica non sa cosa significhi non vedere più tornare a casa qualcuno. Non c’è ideologia che tenga. Non c’è follia nazionalistico-religiosa che possa pensare di piegare a tal punto le emozioni degli esseri umani. Ci stanno provando da secoli e non ci sono mai riusciti. 

La conferma arriva direttamente dalla delicata regia di Lorraine Levy, quando l'inizialmente rigido colonnello Alon Silberg (Pascal Elbé) usa tutta la sua influenza per far avere un foglio di visto per entrare in Israele al giovane Bilal (Mahmoud Shalaby), fratello carnale del suo figlioccio Joseph. O ancor di più quando i due padri di casa, Alon e Saïd (Khalifa Natour) vanno in un bar anche se non sanno cosa dirsi, specialmente visto il mondo diverso cui appartengono (inevitabile lo scontro ideologico). 

Per Joseph e Yacine è invece tutto più facile. Analogo discorso per le due madri. Sono donne. Sono più in connessione con la propria anima emotiva. Alla tavolata dell’amore c’è sempre posto. Anche se arriva in ritardo di diciotto anni. Anche se bisogna passare per lacrime solitarie sulla spiaggia. Il lieto fine ci deve essere sempre. Nel guardare Leïla e Saïd che aggiungono un’immagine di Joseph nelle loro foto di famiglia appesa, hai la certezza di una cosa. Cadrà tutto. Cadrà ogni muro ideologico.

Il trailer de Il figlio dell'altra

Il figlio dell'altra - Joseph (Jules Sitruk) e Yacine (Mehdi Dehbi)
Il figlio dell'altra - le famiglie ebree e arabe vengono messe al corrente
Il figlio dell'altra - Said (Khalifa Natour) e Leila (Areen Omari)

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