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venerdì 31 maggio 2013

Leonardo + Baz

i film diretti da Baz Luhrmann
E il gran giorno è arrivato per me. Dimenticate tutte le recensioni fin qua narrate perché la materia è diversa. Baz Luhrmann dirige Leonardo DiCaprio

di Luca Ferrari

Passato per i telefilm americani, in qualche solitaria fetta di passato faccio la conoscenza di un attore adolescente nella sitcom Genitori in blue jeans. Lo avrei rivisto poco dopo in Buon compleanno Mr. Grape (1993, di Lasse Hallström) e soprattutto un giorno per caso in Romeo + Giulietta (1996). 

Ancora ignoro che lì dietro la cinepresa ci sia un tal Baz Luhrmann, regista australiano. Romeo and me. Diversi, ma entrambi sofferenti. Lo guardo quasi di nascosto. In privato dalla mia anima. Troppe bisacce legate alle caviglie per condividere anche solo un fazzoletto. L’urlo straziante dello sfortunato innamorato moderno (con i lineamenti sbarbati di Leonardo) riesce perfino a far indietreggiare le mie dispute senza approdi, dove il sangue nasconde la bellezza e le giungle metropolitane al pari degli angoli disabitati non promettono nulla.  

La canzone per eccellenza del film è Lovefool, nenia della pop band svedese The Cardigans che MTV, già lanciato allo sfascio, pompa senza tregua. Il film è irreale per certi versi. Una dimensione dove trovo coscienza, e mi rimane incagliato. Rimane lì, sepolto da sonorità rock. Un’ultima tappa con DiCaprio sul Titanic (1997) pilotato da James Cameron, ma il cinema non è ancora nella lista dei miei pensieri. Torno a bordo una seconda volta e mi ritrovo a fine proiezione a rimanere inebetito con le mani dentro il mare. Vago. Ancora e ancora. 

Poi un giorno, semplicemente riesplode tutto insieme. Il rock, il cinema, la poesia, Baz Luhrmann. Irrompe Moulin Rouge! (2001) La scintilla diventa un incendio terreno. È l’inizio di un cammino. Ancora innamorati sfortunati, Satine (Nicole Kidman) e Christian (Ewan McGregor). La potenza dell’immagine si mimetizza nella parola. D’improvviso scopro di saper fare ciò che ho sempre fatto.

Da allora il regista dirige Australia (2008) ancora con la Kidman ma non arrivo in tempo sul grande schermo. Il presente invece è oggi. E al varco non c’è solo lui,  c’è anche Leonardo Di Caprio. Sono pronto per Il grande Gatsby (2013).

giovedì 30 maggio 2013

Tutti vogliono un Pinochet… NO, quasi tutti

No - I giorni dell'arcobaleno (2012, di Pablo Larraín)
Nel Cile deggli anni '70 la dittatura di Pinochet fu spalleggiata dall'Occidente. Il popolo però si ribellò. No - I giorni dell'arcobaleno (2012, di Pablo Larraín).

di Luca Ferrari

C’è un dittatore andato troppo oltre e la Comunità Internazionale, occidentale  in questo caso, ha taciuto. Anzi, ha fatto di più. Ha sponsorizzato il golpe di Augusto Pinochet ai danni del marxista Salvatore Allende. Allora (1973) nello stato del Cile, come in molte altre realtà sudamericane dell’epoca, era in atto una terribile repressione ai danni di chiunque non appoggiasse la linea governativa.

Quindici anni dopo, con un mondo che sta allentando le maglie del terrore e dello spettro della guerra nucleare, nel 1988 viene indetto un referendum nazionale per sancire in modo democratico chi guiderà il paese. L’opposizione è debole e il regime comunque usa ancora la mano dura. Si potrebbe utilizzare il tempo pubblico per mostrare gli orrori (centinaia di migliaia di arrestati e torturati nonché almeno tremila morti), e invece no. NO!

La comunità che sgomita per ottenere giustizia e  democrazia non dimentica certo il passato ma vuole guardare al futuro. Viene ingaggiato il giovane pubblicitario René Saavedra che lancia la campagna Chile l'alegria ya viene. No - I giorni dell'arcobaleno (2012, di Pablo Larraín) con Gael García Bernal (I diari della motocicletta, Babel, Fidel) nella parte dell'artefice della campagna, e con le dichiarazioni di sostegno alla campagna degli attori Jane Fonda e Christopher Reeve.

La drammatica dittatura cilena è una di quelle tante pagine della Storia trascurate in favore di qualche fondamentale passaggio medievale o l’ennesima conquista dell’Impero Romano che ogni tanto andrebbe magari accorciata e già che ci siamo anche chiamata col suo vero nome, e cioè “massacro”. 

Pablo Larraín racconta una storia di cui si sa poco aldiquà dell’Atlantico e se già l’abbattere un regime senza l’uso di armi sarebbe di per sé una lezione sufficiente che evidentemente il potere che detiene lo status quo non vuole portare avanti, c’è qualcosa di ancor più importante. Un doppio messaggio. La vittoria del futuro. Qualcosa che nello statico presente italico cannibalizzato da strascichi fascio-comunisti è al limite della fantascienza.

È quasi impossibile guardare No - I giorni dell'arcobaleno concentrandosi “solo” sul film e non sulla Storia. Come accadeva anche in Argo (2012, di Ben Affleck), l’incalzare della regia non fa che aumentare l’ansia in attesa di scoprire come andrà a finire (specie per chi non lo sa) la vicenda, temendo che d’improvviso qualche fatto disumano possa irrompere spietato.

Senza espandere il discorso a ogni mondo, in questo momento la Nato, come l’Onu avvallano miseria, fame e linee governative dispotiche. Della stessa linea operativa anche le varie Cina e Russia. Non c’è speranza dunque per un mondo migliore? No, non c’è. Il mondo potrebbe cambiare, ma non cambierà. Nel corso della Storia però succedono fatti al limite dell’inspiegabile. Inspiegabili perché a trionfare non è il sangue ma il popolo.

Il trailer di No - I giorni dell'arcobaleno

No - I giorni dell'arcobaleno (2012, di Pablo Larraín)

venerdì 24 maggio 2013

OK Pai Mei, I'll kill Bill

Kill Bill vol. 2 - la sposa Beatrix (Uma Thurman)
Sepolta viva e legata, la sposa Beatrix Kiddo (Uma Thurman) ripensa agli insegnamenti del maestro Pai Mei (Gordon Liu) per reagire e uccidere Bill.

di Luca Ferrari

È una delle scene più memorabili di Kill Bill vol. 2 (2004, di Quentin Tarantino). “Sono la pietà, la compassione e il perdono che mancano alla sposa imbrattata di sangue Beatrix Kiddo (Uma Thurman), non la razionalità” racconta Nadia, l’autrice della killbilliana vignetta realizzata con Bitstrips con protagonista il suo avatar Jungle Julia, “La sua forza da guerriera viene sprigionata quando in preda a una profonda angoscia riesce ad accantonare la paura di chi è sotterrato vivo e con una quasi spaventosa razionalità e saggezza trasmessagli dal suo maestro Pai Mei Gordon Liu) colora la bara di rosso e trionfante si concede il suo meritato bicchiere d'acqua fresca”. 

E una volta uscita, la saga della vendetta può continuare. Ancora due nomi della lista da eliminare: Elle Driver (Daryl Hannah) e Bill Gunn (David Carradine). E in entrambi i duelli mortali saranno gli insegnamenti del vecchio maestro di arti marziali a fare la differenza.

Kill Bill vol. 2 - la sposa Beatrix (Uma Thurman)

giovedì 23 maggio 2013

Giovanni Lindo Fedele alla linea (2013)

L'ex-cantante dei CCCP e CSI, Giovani Lindo Ferretti
Viaggio dentro il musicista, e l'essere umano. Germano Maccioni racconta Giovanni Lindo Ferretti. Un uomo Fedele alla linea (2013).

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer 

Volevamo dire la nostra, racconta un giovane Giovanni Lindo Ferretti. Parto da qui. Da una frase che almeno una volta ci ha attraversato tutti. La maggior parte però lascia da parte e si accontenta di quello che i binari della vita suggeriscono, impongono, flirtano. Non Giovanni, come registra Germano Maccioni nel suo documentario Fedele alla linea (2013).

Un viaggio dalle tinte unite tra il ragazzo, l’uomo e il cantante. Nella quiete delle colline reggiane la voce dei CCCP (e poi dei CSI e PGR)  apre il portone dei suoi ricordi. Dal primo incontro febbricitante in una discoteca di Berlino con il conterraneo Massimo Zamboni, futuro chitarrista dei suddetti gruppi musicali (i primi due), alla scoperta di un tumore alla pleura (da cui si è perfettamente ristabilito).

Lì nel mezzo un difficile ma sempre sincero rapporto con la madre, con lui stesso ad ammettere la sua delusione per aver visto il proprio figliolo intraprendere quella strada. E allora nella mente, non possono non ritornare alcune parole della canzone Tu menti (Socialismo e Barbarie, 1987 – CCCP).

Maccioni si muove nella vita di Ferretti senza andare alla ricerca di miraggi, ma recensendo in un aere familiare le pagine più feconde del suo impressionismo naturale. E i suoi occhi si fanno sempre più incisivi tra nitriti e i cappotti del passato domani. Un uomo si racconta. La sigaretta si accende. E si riaccende. Si, ricordo ancora, lo ricordo bene quel viaggio che non poteva finire.  

Giovanni Lindo Ferretti condivide il proprio mondo bambino. La sua voglia di evadere. L’inevitabile assorbimento dell’allora cultura comunista tipica del reggiano. Qualche viaggio per vedere, scoprire. Ed ecco che l’accettazione dell’incompiuto percorso umano diventa filastrocca di rivolta e lotta.

Scorrono i minuti nel grande schermo. Quasi accenni “mendesiani “da American Beauty (1999) nel suono solitario delle campane che si propaga e investe la neve appenninico-casolare della notte. E non c’è nulla di più soave in quel momento. Ci sono i paesi abbandonati di cui Ferretti parla con amarezza. Il mondo lascia la propria origine alla ricerca di un comfort che non farà altro che aumentare la ricchezza d’altri. In una dimensione sempre più in mano ai souvenir da supermarket, la musica è come la vita. Una scelta d’intenti.

Spezzoni d’interviste e concerti. Difficile (se non impossibile) non ripensare alla propria vita mentre il regista procede con il viaggio del musicista. Tra parole, paesaggi delicato-selvaggi, è la poetica dell’esistenza a prendere il sopravvento. Che sia ambientata in una poco nota località montana priva di strade asfaltate o il paesaggio sconfinato della Mongolia, i passi restano quelli. Niente filosofie. Un narrare che investe, mentre la brace scalda la legna senza mai consumarla.

“Non so dove scenderò ma qui c’è la mia casa” sembra quasi sussurrare il protagonista. Ma in realtà non bisbiglia mai. Dice apertamente quello che pensa. “Faccio fatica a esprimere il disagio, e poi ho sempre fretta/ Ho intimorito il mondo attorno a me e di questo non ne ho mai voluto troppo parlare/ ” mi viene da aggiungere.

Settantaquattro minuti dopo siamo già nell’era dell’oggi, dove la vita insegna a nascere e continuare a esistere. E allora posso dire in tutta sincerità che mi sto appostando in prima fila per mostrare nello scontro quotidiano col mondo come le intenzioni si traducano in elementi dentro di noi. Oggi sono sul crinale, ancora a digiuno di malinconia.

Il trailer di Fedele alla linea

Fedele alla linea (2013, di Germano Maccioni)

mercoledì 22 maggio 2013

Come on Kyle MacLachlan, Light my fire

The Doors - Ray Manzarek (Kyle MacLachlan)
Correva l’estate 1992. Un anno prima era uscito il film The Doors (di Oliver Stone). Perno della rock band, il tastierista Raymond Daniel Manzarek (1939-2013).

di Luca Ferrari

Nei primi anni Novanta erano tornati di moda i "mitici" Sessanta, spronati anche da affinità con il rock contemporaneo (sarebbe stata l’ultima grande epoca prima del tracollo). Ma anche in mezzo alle nuove generazioni orientate verso Guns n’ Roses, Metallica, Red Hot Chili Peppers, Iron Maiden o la scena musicale di Seattle (immortalata nel film Singles dal premio Oscar, Cameron Crowe), le musiche dei californiani Doors continuavano a lasciare il segno. 

Allora il cinema non era che qualcosa di passeggero nella mia vita, con le dovute eccezioni s’intende. Una di queste fu la serie I segreti di Twin Peaks di David Lynch dove uno dei protagonisti principali era l’attore Kyle MacLachlan. Logico dunque che quando me lo ritrovai davanti, in uno piccolo cinema del Cadore, non più nelle vesti gellate e impeccabili dell’agente dell’FBI Dale Cooper, ma capellone in piena rivoluzione hippy con  “viaggi” psichedelici alle spalle insieme a Val Kilmer, lì per lì nemmeno lo riconobbi. 

Kyle interpretava Raymond Daniel Manzarek, il tastierista dei Doors. Parecchi anni dopo avrei ritrovato il buon MacLachlan nella serie Desperate Housewives come il dentista Orson Hodge.

Da una serie a un’altra, il cerchio si chiude. Lì nel mezzo c’era Ray, il cervello dei Doors. Quella mente creativa si è spenta ieri, a Rosenheim in Germania, all'età di 74 anni. Here I got, it. Come on disse Manzarek, come tramanda la storia. Il chitarrista Robby Krieger propone un pezzo. È la versione grezza di Light my Fire. Manca però qualcosa e il fine orecchio di Ray Manzarek lo percepisce subito. Manda il resto della band a farsi un giro mentre lui se ne sta da solo a scrivere e provare. Poi l’urlo di entusiasmo irrompe sulla spiaggia di Venice Beach California. E Oliver Stone ce lo raccontò. E iniziò la leggenda.

Il trailer di The Doors

The Doors (1991) - Ray Manzarek (Kyle MacLachlan) e Jim Morrison (Val Kilmer)
The Doors (1991, di Oliver Stone) - da sx:
Robby Krieger (Frank Whaley), Ray Manzarek (Kyle MacLachlan) e Jim Morrison (Val Kilmer)
The Doors (1991, di Oliver Stone) - Ray Manzarek (Kyle MacLachlan)

martedì 21 maggio 2013

Lago Film Fest 2013, dal Veneto (d)al mondo

Lago Film Fest è giunto alla XI edizione
Andare in bicicletta senza mani. Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato. Sfidare il sonno per guardare l’alba. Il coraggio non è la virtù di pochi eroi ma di tutti coloro che vogliono spingere il pensiero oltre i confini dell’esperienza. Anche quest’anno il Lago Film Fest di Revine Lago (Tv) chiama a raduno i suoi spettatori affamati di cinema e arti visive e lancia una sfida straordinaria: quella di mettere le mani in pasta, di dare forma alle idee, di allargare il perimetro di iniziative e risorse.

Con la nuova edizione, la nona, in programma dal 19 al 27 luglio, il festival mette a punto il suo ruolo di player della creatività e sforna un programma di workshop che spaziano dalle arti visive al cinema di animazione per bambini, tenuti da headliner italiani e internazionali. Come Tomás Sheridan, il regista inglese che guiderà un gruppo di documentaristi dietro e davanti la telecamera e svelerà i segreti del reportage per immagini. Perché il Lago Film Fest, che in terra veneta affonda le sue radici, continua a spingere lo sguardo sempre più lontano, ben oltre i confini regionali e nazionali, grazie alle infinite declinazioni della comunicazione Glocal, ai Social network e all’audacia di chi al porto sicuro preferisce mantenere il vento il poppa.

Nessuna latitudine esclusa per il IX Lago Film Fest, dunque, che quest’anno ha confermato il suo appeal per filmaker e creativi di tutto il mondo. Tremila sono infatti i film arrivati al quartier generale di Revine Lago. Quali saranno le opere che supereranno la prima selezione per andare poi a comporre le sezioni internazionale, nazionale, Unicef, Nuovi Segni e Veneto? Quali opere riusciranno a catturare il cuore della giuria internazionale (ancora segretissimi i nomi) tra le cui fila hanno militato in passato Maccio Capatonda, Antonio Rezza, Alberto Nerazzini, Angela Rafanelli? Troppo presto per dirlo. Ma non c’è dubbio che anche quest’anno il Lago Film Fest offrirà una delle più elettrizzanti vetrine cinematografiche indipendenti italiane. Un parco delle meraviglie fatto di celluloide e sogni dove la sperimentazione degli outsider va a braccetto con gli interpreti più rigorosi dei generi e dove gli incubi horror incrociano grazia e dolcezza delle favole per l’infanzia.

Lago Film Fest 2013, il manifesto realizzato da Elisa Delli Zotti

Manifesto del Lago Film Fest 2013, un’immagine della designer ventottenne originaria di Pordenone, Elisa Delli Zotti, che ha sbaragliato la concorrenza degli altri partecipanti (104 in tutto) al contest lanciato dagli organizzatori. I due laghi (fisicamente realizzati da Elisa e poi fotografati) hanno il sapore genuino della materia e al contempo, grazie all'eleganza dell'impatto minimal, fissano su carta il concetto di geolocalizzazione, quest'anno duplice, di Revine Lago e della Svizzera. Due laghi quindi sospesi, ma bloccati e segnalati da due spilli, uno bianco ed uno rosso, a sottolineare il rapporto e la valenza del progetto Svizzera Mon Amour, grazie alla quale quest'anno potremo vedere a Lago il meglio dell'arte, della grafica, del cinema e della musica made in Switzerland.

Revine Lago (Tv), il pubblico assiste a una proiezione del Lago Film Fest

lunedì 20 maggio 2013

il somigliare agli altri non la salva

Giovanni Lindo Ferretti
“arene di spazi, bohemien e colline emozionali ci mettono sullo stesso piano/... come un mare polare dalla criptica felicità/... abbiamo compiuto diciotto anni in differenti momenti diversi ma conserviamo cicatrici prima ancora che la rivolta dei mufloni iniziasse a scandire i nomi della tua voce natalizia.../ nella terra del pane hai una foto dove assomiglio a una ragazza/…la forma della sostanza è il bassorilievo di uno scoglio, e io ho imparato che il metallo è leggero quanto il litio”...

Nella variegata cultura musicale italiana ci sono personalità mai state commerciali ma che hanno comunque lasciato una significativa impronta popolare. Giovanni Lindo Ferretti, storico cantante dei CCCP Fedeli alla linea, CSI e PGR, è uno degli indiscussi protagonisti. Non solo musica. Insieme al fedele chitarrista Massimo Zamboni, al suo fianco anche per l'intera durata del progetto Consorzio Suonatori Indipendenti, diede alle stampe il libro In Mongolia in retromarcia (2000, Giunti Editore), ispirato da un viaggio nel lontano stato asiatico e alla base dell’ultimo album targato CSI, Tabula Rasa Elettrificata (1997).

Fedele alla linea (2013)
Dalla musica al cinema. “Sono stato allevato cattolico e felice. Poi con l’adolescenza ho scoperto il mondo moderno e la vita”. Inizia così il trailer del documentario Fedele alla linea (2013, di Germano Maccioni), incentrato su Ferretti. Un dialogo basato su un’alchimia tra soggetto e regista che permette di intravedere quegli spazi, fisici e non, abitualmente celati, che restituiscono prospettive inusuali sulla persona. Pensiero politico-intellettuale e attitudine punk, cristianesimo e comunismo, musica popolare e letture salmodianti, palcoscenico e stalla: questioni esistenziali e storie famigliari tratteggiano un percorso anticonformista e coerentemente controcorrente.

Fedele alla linea sarà proiettato lunedì 20 maggio nella sala Movie A del Cinema Giorgione di Venezia (h. 17/19/21).

“…ma questi demoni sanno tanto d’amore e c’è chi li mistifica e chi li maledice, invece nelle strade coperte di foglie, tempeste capovolte spazzano le ombre sotto i miei occhi e preparano la macchia sulla mia mano a una maggior prontezza di riflessi/… La direzione della mia distanza è un rumore sintetico uscito dalla bocca/ …miagolii insorgono da dietro il cancello/ il vento verticale scende sulle spalle sorpassato e felice/… mi avvicino  al ciglio della tua sagoma/ in prossimità della tua corrispondenza, in prossimità del tuo zigzagare”

Fedele alla linea (2013) - G. L. Ferretti
Giovanni Lindo Ferretti, persona pubblica e uomo privato, negli anni ha disorientato fan e opinione pubblica manifestando un pensiero libero e forte, senza sottrarsi a critiche e fraintendimenti. Fedele alla linea è un dialogo intimo tra le mura di casa che ripercorre un intero arco esistenziale: dall’Appennino alla Mongolia, attraversando il successo, la malattia e lo sgretolarsi di un’ideologia. Il ritorno a casa infine, tra i suoi monti, per riprendere le fila di una tradizione secolare. Sullo sfondo il suo ultimo ambizioso progetto, Saga. Il Canto dei Canti, opera epica equestre che narra il legame millenario tra uomini, cavalli e montagne.

“Tra i frammenti del dimorare, adesso è la volta dei solai, dell’oro cerato, dei diversi linguaggi accostati. Tra le musiche della terra qualcuno ha inserito la radiografia del mio letto. Anche questo vorrà dire fare l’alba? Nell’operatività giornaliera da latte e biscotti, affronto lo spostamento quotidiano col mio passato remoto così ibridato in sentimenti epidermici. È la prepotente dimensione del Tempo. Esco dalla mia capacità solvente. Mi attende una nuova sequenza di immagini improntate e accartocciate sulla riva dove giocano i raggi di sole”.

Fedele alla linea (2013, di Germano Maccioni)

venerdì 17 maggio 2013

Mi rifaccio vivo, destinazione Sergio Rubini

Mi rifaccio vivo - Ottone (Neri Marcorè) e Dennis (Emilio Solfrizzi)
Passerella tra la vita e la morte, felicità e abisso. Un cast corale quello di Mi rifaccio vivo abilmente diretto da Sergio Rubini e tutto da apprezzare.

 di Luca Ferrari

Mettiamo subito “un paio” di concetti in chiaro. Assistere alla proiezione del film Mi rifaccio vivo (2013, di Sergio Rubini) porta a una serie di riflessioni e desideri:
  1. la certezza che l’Italia non partorisce solo fiction scadenti e commedie forgiate dalla muffa dei luoghi comuni romanesco-milanesi 
  2. Emilio Solfrizzi è un attore sprecato nel Belpaese 
  3. il regista/attore Sergio Rubini sarebbe potuto essere un ottimo Bill Jarmusch o Jim Murray, come vi pare 
  4. dopo l’ennesimo ruolo di nevrotica, bramo in modo impellente di vedere Margherita Buy nei panni di Lara Croft che spara, si lancia da aerei in fiamme e prende a calci e pugni omaccioni pericolosi 
  5. se siete fumatori semplici, medi o incalliti, accendetevi almeno due sigarette prima di entrare in sala perché proverete presto un’irrefrenabile desiderio di gustarvene una (più di una)
Sorrisi da seconda chance in chiave La vita è meravigliosa (1946, Frank Capra). Un aldilà che celebra Prossima Fermata: Paradiso (1991, di Albert Brooks con Meryl Streep). Un’umanità degli interpreti da The Family Man (2000, di Bret Ratner con Nicolas Cage). Semplicemente, Mi rifaccio vivo (2013, di Sergio Rubini.

Che il pugliese Sergio Rubini, il recente “Gerry” deus ex machina dell’elezione a sindaco di Cetto La Qualunque (Antonio Albanese), sia un’anima poetica del cinema italiano, è indubbio. Nella sua nuova prova da regista, a quattro anni di distanza da L’Uomo Nero (2009), riesce nell’impresa di plasmare sentimenti neri come l’invidia, il suicidio e la vendetta in un viaggio a ritroso nella vita, lasciando venire/ritornare a galla (è proprio il caso di dirlo) la spensieratezza/voglia di provarci comunque.

Gettatosi nel lago con un masso al collo, Biagio Bianchetti (Lillo) viene condotto in taxi (al volante Enzo Iacchetti) nell’imponente residenza eterna. Un aldilà a gestione “comunista” con Carl Marx a smaltire i nuovi arrivati: i più meritevoli sistemati al 2° piano, i più lazzaroni nel seminterrato. Tra questi ultimi c’è Biagio, imprenditore semi-suicida ma con un passato di bambino buono, nato da una famiglia hippy e cambiato dal giorno in cui nella sua vita irruppe l’apparente impeccabile Ottone Di Valerio (Neri Marcorè).

Un gesto di carità più o meno sincero a un barbone (Sergio Rubini) poco prima di farla finita gli fa guadagnare un bonus di una settimana per tornare sulla Terra, e così sancire una volta per tutte quale sarà la sua collocazione finale. Le sue nuove sembianze sono quelle del supermanager Dennis Ruffini (Emilio Solfrizzi), neo-assunto da Ottone. Ma a dispetto delle angeliche buone azioni promesse, non aspetta altro che ripagare l’acerrimo nemico di tutte le ingiustizie subite.

La verità che scoprirà però sarà ben diversa. Ottone è un ansiogeno. Insicuro. Umiliato dal padre olimpionico in giovane età. Da anni in analisi dalla psicologa Amanda (Valentina Cervi), ora innamoratasi di lui. Chiuso in un matrimonio senza amore (e sesso da tre anni) con la moglie Virginia (Margherita Buy), debole e con poca autostima che per risvegliare certe passioni si è gettata con timida circospezione nella visione di film porno (e tra le braccia di Ruffini). 

Nel proprio egoismo e alla disperata ricerca di superare sempre il rivale, Biagio si dimentica della propria di moglie, Sandra (Vanessa Incontrada), ora alle prese con un debito da milioni di euro con il mafioso avvocato Mancuso (Gianmarco Tognazzi).

Scontri, confessioni e risate. Anche per Ottone arriva il momento di tentare di farla finita, ma sarà lo stesso antagonista a impedirglielo. E quando sono seduti in cima a un palazzo, dopo aver rischiato entrambi di crepare, la sigaretta fumata prima e l’urlo successivo poi su quanto in realtà disprezzi la cucina giapponese, strappa i due protagonisti all’età del consumismo e della scalata al successo, e li riporta bambini in riva al mare che giocano felici e spensierati dopo un litigio.

Dicono che la vita non sia mai come la sogniamo da piccoli/adolescenti. Sergio Rubini invece ci racconta un’altra storia. Senza note stonate né fasulle. Sergio Rubini ci racconta qualcosa che tutti abbiamo già vissuto almeno una volta. A eserci mancato semmai, è stata una risata spensierata quando tutto doveva essere finito. Un segno per ricominciare.

Il trailer di Mi rifaccio vivo

Mi rifaccio vivo - Sandra (Vanessa Incontrada) e Biagio (Lillo)
Mi rifaccio vivo - Amanda (ValentinaCervi)
Mi rifaccio vivo - Virginia (Margherita Buy) e Dennis (Emilio Solfrizzi)

martedì 14 maggio 2013

Ratatouille, la nuova prospettiva PIXAR

Ratatouille (2007, di Brad Bird)
Tutti alla tavola del cinema. Cucina un simpatico topolino di nome Remì. Il piatto del giorno? Un'insuperabile porzione di Ratatouille

di Luca Ferrari

La favola di John Lasseter e la sua creatura Pixar Animation Studios ha narrato alcune delle più creative pagine della moderna cinematografia, a cominciare dal primo Toy Story (1995), passando per i successivi Monsters & Co. (2001), Alla ricerca di Nemo (2003), Cars (2006), fino ai più recenti Ribelle - The Brave e Monsters University (2013).
 
Altri titoli lì nel mezzo. Altre fiabe a portata dei migliori sogni da immaginare all’infinito dentro e fuori di noi. Lì nel mezzo, tra formiche coraggiose, normali supereroi, robot e intrepidi anziani amanti di palloncini, c’è anche il topolino Rémi. Insuperabile cuoco, che grazie alla collaborazione dell'umano Linguini, darà vita a qualcosa che si era mai vista nelle cucine di Parigi. Insieme i due riusciranno nell’impossibile. Trasformare il più spietato dei critici culinari in un poetico amante dell’ottima (superlativa) cucina.

Come? Ma con una porzione di Ratatouille (2007, di Brad Bird e Jan Pinkava), ovviamente. Nella solitudine della propria altezzosa dimora, Anton Ego (voce originale del premio Oscar alla carriera, Peter O’Toole), scrive qualcosa che non aveva mai osato neppure pensare prima:

“Per molti versi la professione del critico è facile. Rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande  disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale.

Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero, ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni. Al nuovo servono sostenitori. Ieri sera mi sono imbattuto in qualcosa di nuovo. Un pasto straordinario di provenienza assolutamente imprevedibile.

Affermare che sia la cena sia il suo artefice abbiano messo in crisi le mie convinzioni sull’alta cucina, è a dir poco riduttivo. Hanno scosso le fondamenta stesse del mio essere. In passato non ho fatto mistero del mio sdegno per il famoso motto dello chef Gusteau, chiunque può cucinare, ma ora, soltanto ora, comprendo appieno ciò che egli intendesse dire.

Non tutti possono diventare dei grandi artisti, ma un grande artista può celarsi in chiunque. È difficile immaginare origini più umili di quelle del genio che ora guida il ristorante Gusteau e che secondo l’opinione di chi scrive, è niente di meno che il miglior chef di tutta la Francia. Tornerò presto al ristorante Gusteau di cui non sarò mai sazio”.

Ratatouille - il critico culinario Anton Ego
Ratatouille - il topolino Remi ai fornelli
il piatto Ratatouille (2007) preparato da Rémi

lunedì 13 maggio 2013

Peppone e Don Camillo, fratelli d'Italia

Don Camillo e l’onorevole Peppone (1955, di Carmine Gallone) - il sindaco Bottazzi (Gino Cervi)
Mezzadri contro proprietari terrieri. Per fortuna che a Brescello, a "sedare gli animi", ci sono il sindaco comunista Peppone e il parroco Don Camillo.

di Luca Ferrari

Ogni dialogo tra “quei due” è pura storia del cinema. Da guardare. Ascoltare. Sentire. È l’Italia del dopoguerra quando autentici Comunisti e veri Democristiani si sfidavano su ogni terreno. E “quei due” se le davano di santa ragione (mani incluse). Ma erano amici. Veri amici. Non s’insultavano per poi mettere in conto allo Stato il proprio pranzo d’ordinanza. Volevano vincere. Sempre e comunque. Ma erano amici, e c’erano limiti che non si oltrepassavano mai. Il divertimento (spesso poetico) ci stava tutto prima, durante e dopo. 
 
Cinque film con protagonista la coppia Gino Cervi e Fernandel, più un sesto interrotto per la dipartita dell’attore marsigliese, rispettivamente nei panni del sindaco comunista Giovanni Bottazzi detto Peppone e il parroco Don Camillo. Questo è il terzo capitolo della saga, Don Camillo e l’onorevole Peppone (1955, di Carmine Gallone), sempre ispirato dalle pagine di Giovannino Guareschi e ambientato nel comune reggiano di Brescello.

In una delle scene più indimenticabili di questa pellicola Don Camillo porta l’umile Bezzi (Umberto Spadaro) negli uffici comunali per risolvere una questione che vede l’intransigenza del mezzadro Romeo Tasca (Aldo Vasco) a non lasciare il podere del suddetto contadino. Messo alle strette e con la poco gradita intromissione del reverendo, il sindaco abbandona la veste ufficiale lasciando emergere tutto il lato più “pepponesco” e consigliando al parroco di pensare ai propri polli.  

I miei polli? Stanno benissimo, replica subito il salace uomo di chiesa, Fanno come voi. S’ingrassano! Sfidato e sbeffeggiato dunque, il primo cittadino “rosso” prova a replicare all’ennesimo schiaffo morale con le parole "Andate pure reverendo. Ci rivedremo a Filippo". Alché il prete reazionario ancora una volta lo redarguisce con le immortali: A Filippi signor sindaco, non confondiamo la storia con la geografia!

Don Camillo e l’onorevole Peppone - Don Camillo (Fernandel) e il Bezzi (Umberto Spadaro)
Don Camillo e l’onorevole Peppone - Don Camillo (Fernandel) e il Bezzi (Umberto Spadaro)
Don Camillo e l’onorevole Peppone - il sindaco Giuseppe Bottazzi "Peppone" (Gino Cervi)
Don Camillo e l’onorevole Peppone - Don Camillo (Fernandel) e il Bezzi (Umberto Spadaro)
Don Camillo e l’onorevole Peppone - Don Camillo (Fernandel) e il Bezzi (Umberto Spadaro)
Don Camillo e l’onorevole Peppone - il sindaco Giuseppe Bottazzi "Peppone" (Gino Cervi)

venerdì 10 maggio 2013

Hansel e Gretel Superheroes

Hansel e Gretel, cacciatori di streghe - Gretel (Gemma Arterton) e Hansel (Jeremy Renner)
In un mondo di terrore, i fratelli  Hansel (Jeremy Renner) e Gretel (Gemma Arterton) proteggono i bambini dal mondo delle grinfie delle streghe cattive.

di Luca Ferrari

Le combattono. Le uccidono. Hanno imparato sulla loro pelle che non bisogna cedere alle facile lusinghe dell’apparenza. Fa quello che vuoi ma non toccare quei dolci del cazzo, dice uno spazientito/preoccupato Hansel, una volta ritornato sul luogo del delitto. Tutte le streghe del mondo sono avvisati, i cacciatori Hansel e Gretel sono più decisi che mai a fare piazza pulita.

Che cosa sono le case di marzapane al giorno d’oggi? I reality show? Sono i facili inviti a un mondo irreale dove il lupo può avere tutte le sembianze che vuole? È lo sconosciuto che ti sorride? È il conoscente che ti tenta? Puoi essere ottimista e lottare per la pace, ma non abbassare la guardia. Magari come diceva il mercenario Yuri Orlov (Nicolas Cage), il male trionferà, ma vale comunque rendergli la vita difficile. Impossibile.

Un ricordo fa un segreto. Una leggenda fa un monito. Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe (Hansel and Gretel: Witch Hunters, 2013, di Tommy Wirkola). In una notte imprecisata due bambini vengono portati nel bosco e lasciati lì. Abbandonati dal proprio padre e madre. Perché lo hanno fatto? Nella paura della solitudine del bosco scoprono una succulenta casa fatta di dolci e vi entrano.

È l’inizio di un incubo. Una strega li segrega per ucciderli ma grazie all’astuzia della ragazzina sarà la creatura malefica a bruciare nelle fiamme. Per loro ha inizio una nuova vita. Una missione che non hanno scelto. Il destino li ha trovati. Potevano morire. Hanno reagito e ora le cronache non fanno che parlare di due impavidi cacciatori di streghe in giro per il mondo.

“La storia di Hansel & Gretel fa parte di me da quando ero piccolo” racconta il regista, “Ho un ricordo molto vivido di come era triste e raccapricciante la loro storia e mi domandavo cosa sarebbe successo ai due fratelli quando sarebbero cresciuti. Avevano questo passato terribile e un intenso odio verso le streghe. Mentre ci pensavo, è diventato chiaro per me che i due erano sicuramente destinati a diventare dei grandi cacciatori di streghe”.  

Non esiste bosco o villaggio che non conosca la loro fama. Ma come sempre capita agli eroi, per cambiare davvero il corso dei malefici eventi, bisogna sfidare anche i propri demoni interiori.

Teatro di questa lotta mortale è la città teutonica di Augusta dove di recente sono spariti molti bambini. Hansel (Jeremy Renner) e Gretel (Gemma Arterton) arrivano giusto in tempo per impedire che lo sceriffo della città Berringer (Peter Stormare) metta al rogo l’indifesa Mina (Pihla Viitala), accusata ingiustamente di stregoneria. Modi sbrigativi per i due cacciatori, e la ragazza viene salvata. 

Ma col tempo si scoprirà che qualcosa da nascondere ce l’aveva anche lei. Era davvero una strega, si, ma una di quelle buone. Sarà lei a guidare il valoroso Hansel, insieme al giovane esperto Benjamin (Thomas Mann) alla volta del sabba della Luna di sangue, dove Gretel sta per essere uccisa dalla potentissima strega Muriel (Famke Janssen), che ha bisogno del suo sangue e di quello degli 11 bambini rapiti.

Favole e streghe. La cinematografia mondiale ha scelto il suo trend. Cappuccetto Rosso, le due versioni di Biancaneve con protagoniste una minuta Lily Collins e la guerriera Kristen Stewart e ora Hansel e Gretel. Il fascino dei fratelli Grimm pare essere stato riscoperto. Ma chi erano costoro? 

Quando il filone non era ancora esploso, aveva dato una sua interpretazione il regista Terry Gilliam con il film I fratelli Grimm e l'incantevole strega (2005), con protagonisti Matt Damon e Heath Ledger. Ma nessuno aveva ancora preso armi vanhelsinghiane per la propria crociata contro il male. Hansel e Gretel non hanno tempo per la dolcezza (Gretel quanto meno). Il loro compito è quello di liberare il mondo dal male. 

Loro lo hanno visto con i loro occhi. E ogni volta che uccidono, possono riprendere il proprio viaggio e regalare agli occhi indifesi di una creatura la speranza (certezza) che qualcuno a vegliare su di loro, ci sia.

Il trailer di  Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe

Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe, Gretel (Gemma Arterton) © 2013 Paramount Pictures
Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe, Mina (Pihla Viitala)
Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe, Hansel (Jeremy Renner) © 2013 Paramount Pictures
Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe © 2013 Paramount Pictures

giovedì 9 maggio 2013

Venezia 70, Bernardo Bertolucci Presidente Giuria

70. Mostra del Cinema - il regista Bernardo Bertolucci  © Biennale foto  ASAC
Nell’anno della Palma d’oro alla carriera a Cannes,  il regista Bernardo Bertolucci sarà a Venezia come presidente di giuria dei film in concorso.

di Luca Ferrari

Il regista Bernardo Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, Novecento, L'ultimo imperatore, The Dreamers) presiederà la Giuria internazionale del Concorso della 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (28 agosto – 7 settembre 2013), che assegnerà il Leone d’oro per il miglior film e gli altri premi ufficiali. 

“Pochi registi, al pari di Bertolucci, sommano alla lunga esperienza il fatto di vivere un presente cinematografico in cui agiscono con le loro opere, di cui s’interessano (esercitando un’inesausta curiosità) e di cui si preoccupano, perché scovare e portare all’attenzione ciò che di vitale si sta muovendo e ciò che di bello sta magari esplodendo, è tra i migliori servizi che il cinema possa fare a se stesso” ha dichiarato il Direttore della Mostra Alberto Barbera, “Anche per questi motivi, Bertolucci è il Presidente ideale per il ruolo importante e delicato che ha generosamente accettato di ricoprire”.

Bertolucci esordì come regista proprio a Venezia con La commare secca (1962) mentre l'anno prima era stato alla Mostra come aiuto regista dell'esordiente Pier Paolo Pasolini con Accattone (1961). In seguito, altre importanti opere di Bertolucci sono state presentate in prima mondiale al Lido: Partner (1968), Strategia del ragno (1970), La luna (1979) e The Dreamers (2003). 

Con la sua prestigiosa filmografia, Bertolucci ha ottenuto premi e consensi nei principali festival. Ha stabilito un primato assoluto per un film europeo, aggiudicandosi 9 Oscar con L’ultimo imperatore (1987), primo e unico film italiano a riceverlo per la miglior regia. Il suo più recente film, Io e te (2012), ha riscosso uno straordinario successo di critica e pubblico al Festival di Cannes e ha ottenuto il Nastro d’argento dell’anno 2013 del Sindacato Giornalisti Cinematografici Italiani.

“Ho accettato con allegria di presiedere la giuria della settantesima Mostra internazionale cinematografica di Venezia" ha dichiarato il regista parmigiano, "In una manciata di giorni mi si regala la possibilità di vedere quanto di più interessante sta accadendo  nelle cinematografie di tutto il mondo.

Il mio amico cinefilo Alberto Barbera riesce a infilarsi nelle nicchie cinematografiche più misteriose dei più misteriosi paesi del mondo. È la mia seconda volta. Nel 1983 la Mostra celebrava la sua 40° edizione. La mia giuria, composta quasi tutta (tutta) di registi non poteva che premiare Jean-Luc Godard, a cui tutti noi dovevamo tanto e che non aveva mai avuto un premio importante nella sua vita. Allora ai film chiedevo sorpresa e piacere.  Non sono molto cambiato".

Mostra del Cinema 2011, Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio  © La Biennale di Venezia - ASAC

mercoledì 8 maggio 2013

Rocky V, la stampa mette ko Tommy Gunn

Rocky V - George Washington Duke (Richard Gant) e Tommy "Machine" Gunn (Tommy Morrison)
A mettere al tappeto l'arrogante Tommy Gunn, prima ancora del campione Rocky Balboa, ci pensa l'affilata stampa pugilistica.

di Luca Ferrari

C’è un nuovo campione dei pesi massimi. Il suo nome è Tommy "Machine" Gunn (Tommy Morrison). Al suo fianco c’è un manager senza scrupoli, il potente George Washington Duke (Richard Gant). Ma se oggi ha la cintura, il merito è soprattutto del suo ormai ex-allenatore scaricato senza troppi complimenti. Un uomo che è ancora nel cuore dei tifosi. Un uomo cui il pubblico inneggia anche dopo la sua vittoria. Quell’uomo è Rocky Balboa (Sylvester Stallone).

Rocky V (1990, di  John G. Avildsen). Passano gli anni ma Rocky rimane quello che è. Ha appena battuto il colosso russo Ivan Drago ma è smpre un po’ ingenuo. Sempre combattente. Disposto a offrire una chance a chiunque. Aprendo le porte della sua famiglia ed esponendosi senza pensarci alle delusioni. I sentimenti del suo allenatore Mickey (Burgess Meredith), l’amata moglie Adriana (Talia Shire) e il figlio Junior (Sage Stalllone) sono sempre lì, a lottare e soffrire insieme a lui. Chi nel ricordo, chi nella vicinanza domestica. 

Rocky, un combattente del ring e nella vita. Ma quando il suo ex-pupillo Tommy, all’apice della gloria, ringrazia solo Duke, perfino lui resta di stucco. Il denaro cancella il cuore. E se ne va malinconico con il cognato/amico fraterno Paulie (Burt Young) a berci sopra. Intanto però i reporter sportivi non si risparmiano e alla conferenza stampa post match colpiscono diretti il borioso neocampione, capcae solo di opporre una rabbiosa e sterile resistenza, nascondendosi dietro le sottane del manager.

Questo incontro non le è sembrato un po’ troppo facile? Attacca subito il primo cronista. Duke prova a tamponare la piega presa dai media sposando in parte la loro visione e spiegando che il detentore del titolo Union Cane (Michael Williams) non era in perfette condizioni ma che Gunn avrebbe vinto comunque. 

La replica è spietata. Ma se non riusciva neanche a respirare, spara uno. Lo sanno tutti che Cane era un fantoccio e non un campione, continua un altro. Alla successiva domanda, Tommy, riuscirai mai a liberarti dell’ombra di Rocky Balboa?, il giovane colpito nell'orgoglio risponde spazientito, agitando la cintura: “Ho vinto il titolo mondiale, che devo fare di più?". 

Non l’avesse mai detto. Un robusto e navigato giornalista si alza tramortendolo e agitando le proprie armi (penna e taccuino): Glielo dico io cosa deve fare. Incontrare un campione vero – "Stasera ho battuto il migliore", replica alle corde il pugile. Ah ah ah, la grassa risata in risposta della stampa, subito seguita dal collega vicino che alzandosi in piedi a sua volta sottolinea, Quello era un burattino, non meritava nemmeno di salire sul ring. 

I giornalisti sono un vulcano in eruzione. Il match cui hanno assistito aveva tanto il sapore di una farsa. Loro lo sanno. Sanno distinguere i campioni dai fantocci, perché come dice uno di loro, Tommy Gunn potrà anche vincere qualche incontro ma non vincerà mai contro Rocky Balboa.

Rocky V (1990)
Rocky V - la stampa domanda

Rocky V - la stampa attacca Tommy Gunn
Rocky V - George Washington Duke (Richard Gant) e Tommy "Machine" Gunn (Tommy Morrison)
Rocky V - la stampa attacca Tommy Gunn
Rocky V - la stampa irride Tommy Gunn
Rocky V - la stampa irride Tommy Gunn