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giovedì 29 maggio 2014

Roma d'Oriente, Across Asia Film Festival

Mondomanila (2012, di Khavn De La Cruz)
Roma non è solo cinema da mega produzioni. Al Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo sbarca la I edizione dell'Across Asia Film Festival.

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

Cultura, scoperta e conoscenza. Dalle lontane realtà insulari delle Isole Filippine irrompono storie. Fraseggi. Sconfinati sentieri di narrazione. Circondate dall'Oceano Pacifico e con l'orizzonte a portata d'Indonesia, Taiwan e Vietnam, il grande schermo assorbe e poi riversa a migliaia di chilometri di distanza. Qui, a Roma. Alla I edizione dell'Across Asia Film Festival (31 maggio – 1 giugno).

Asia sempre più protagonista nella cinematografia mondiale. Basterebbe citare il Far East Film Festival di Udine o la Mostra del Cinema di Venezia. Nelle ultime dieci edizioni della rassegna lagunare, per quattro volte il Leone d'Oro del miglior film si è  spinto a Oriente (I segreti di Brokeback Mountain, Still Life, Lussuria e Pietà). Nel 2012 inoltre il regista cinese Wang Bing si è aggiudicato il Premio Orizzonti con San Zimei e nello stesso anno la collega sudcoreana Yoo Min-young si è portata casa il Premio Orizzonti YouTube per il miglior cortometraggio (Cho-de).

Per gli appassionati di questa millenaria cultura, da sabato 31 maggio a domenica 1 giugno al MAXXI di Roma è di scena la prima edizione dell'Across Asia Film Festival - Perfumed Nightmares, rassegna sul nuovo cinema indipendente asiatico che ogni anno approfondisce una singola cinematografia, mostrando il grande apporto del continente in termini di sperimentazione, ricerca estetica e innovazione linguistica.

Sotto i riflettori romani, il cinema e la cultura indipendente filippina, in particolare la Philippines New Wave, movimento di filmmakers e artisti nato nell’area di Metromanila nei primi anni 2000 e riconosciuto nel panorama internazionale per la grande vitalità e innovazione del suo cinema (Festival del Cinema di Rotterdam,  Festival di Cannes, TIFF, Berlinale, etc.).

Con la direzione artistica curata da Stefano Galanti e Maria Paola Zedda, Across Asia Film Festival è stato organizzato dall’Associazione Culturale ZEI e realizzato con la collaborazione sinergica della Fondazione Roma Solidale, il Film Development Council of the Philippines, la Fondazione Sardegna Film Commission, il MAXXI e la stessa l'Ambasciata della Repubblica delle Filippine.

Film, masterclass sulla produzione indipendente, musica contemporanea, danze tradizionali, rap e street dance sono i protagonisti di un fitto programma che vede  il coinvolgimento diretto e attivo della comunità filippina di Roma. Tra gli ospiti, il regista Khavn De La Cruz, l’enfant terrible del cinema filippino, e il musicista inglese Mike Cooper. Ingresso libero.

Il grande schermo asiatico tornerà in Italia in autunno a Cagliari, con una programmazione di cinque giorni incentrata questa volta sulla new wave di Cina, Hong Kong e Taiwan. Lungometraggi, cortometraggi, laboratori e talk con registi si susseguiranno insieme a numerosi eventi collaterali che vedranno protagoniste le comunità di immigrati creando così un ricco momento di scambio culturale e sociale, consolidando l'amicizia tra i paesi.

Edsa XXX (2012, di Khavn De La Cruz)
Mondomanila (2012, di Khavn De La Cruz)

martedì 27 maggio 2014

Grace di Monaco, Hollywood affonda de Gaulle

Grace di Monaco - la principessa Grace (Nicole Kidman)
Charles de Gaulle vinse molte battaglie ma quando cercò di prendersi il Principato, la principessa Grace (Kelly) di Monaco gli rispose in Hollywood style.

di Luca Ferrari

Sofferente. Irrequieta. Non più diva del grande schermo. Solo mamma, moglie e Principessa (di Monaco). La nuova fiabesca vita di Grace Kelly non fu come la sognava. A complicare il quotidiano ci si mise di mezzo anche la politica, con la Francia del presidente Charles de Gaulle a minacciare invasione o sottomissione. Il generale però non aveva fatto i conti con il moderno star system. Un fatale errore di valutazione.

Il regista transalpino Olivier Dahan (I fiumi di porpora 2, Le vie en rose) porta sul grande schermo il mito di Grace di Monaco (2014).

Europa occidentale, anni '60. Sempre più aziende francesi spostano la propria sede legale nel Principato di Monaco dove non si pagano tasse. Con in corso l'azione militare in Algeria, il Presidente Charles de Gaulle (André Penvern) non ha tempo da perdere con il Principe Ranieri III (Tim Roth) e dalla iniziale via diplomatica per chiarire la situazione, si passa rapidamente alla minaccia di un'invasione se la piccola casa reale non farà come paventato dall'Eliseo.

Moglie di Ranieri, è la diva del cinema americana Grace Kelly (Nicole Kidman). Nel Principato l'attrice è un pesce fuor d'acqua. Regina poco riconosciuta dal popolo (parla male il francese). A disagio con la superficialità delle altezzose donne monegasche, in prima linea tra le conversazioni politiche degli uomini. L'armatore greco Onassis (Robert Lindsay), amico di Ranieri, gradisce molto poco le sue intromissioni e auspica il pugno duro del marito. Ancora desiderosa di recitare, quando Alfred Hitchcock (Roger Ashton-Griffiths) le propone un nuovo copione, il richiamo di Hollywood senza più le maglie del formalismo monarchico, sono ben più di un capriccio da star.

Ranieri, inizialmente benevolo ma esasperato dalla difficile situazione politica, non ha più pazienza con Grace, la quale giorno dopo giorno è sempre più isolata. Figli a parte, il solo conforto le viene dall'amicizia di Padre Francis Tucker (Frank Langella) e la cantante Maria Callas (Paz Vega), moglie di Onassis. Troppo poco comunque. Dentro di lei c'è ancora molta Grace Kelly e assai meno Grace di Monaco. Deve fare una scelta.

Tutto sembra precipitare a livello personale e politico, ma certe favole hanno davvero la forza di durare per sempre così Grace accetta di recitare la parte più difficile della propria carriera. Consigliata dall'amichevole Conte Fernando D'Aillieres (Derek Jacobi), scatta la rivoluzione. Entra in campo la Principessa, e con sé ha un formidabile asso nella manica per salvare (la sua) Monaco, mettere KO de Gaulle, che erroneamente sottovaluta la donna, e diventare attrice protagonista della sua nuova vita.

“Nessuno è più con Ranieri, ma sono tutti con Grace” dice preoccupato un ministro al Presidente francese. E così è. L'attrice premio Oscar 1954 per La ragazza di campagna (di George Seaton) mostra al valoroso eroe della II Guerra Mondiale che gli anni Sessanta non sono i Quaranta e oggi, a dettare legge in Occidente, non sono più gli eserciti. C'è una forza nuova sempre più dirompente capace di spostare l'opinione pubblica e incidere nelle decisioni dei loro leader. È lo show business.

Ma dove ti eri nascosta Nicole? Dal non certo memorabile Ritorno a Cold Mountain (2003, di Anthony Minghella) in poi, l'attrice australiana premio Oscar per The Hours (2002, di Stephen Daldry) non ha fatto che collezionare prove sbiadite e/o pellicole appena degne di un minimo di spessore. Ci voleva una grandissima attrice da interpretare per farla tornare davvero sotto i riflettori. E così è stato. La magia della regina monegasca ha “fenicizzato” Nicole Kidman.

In Grace di Monaco, film di apertura del 67° Festival di Cannes, Nicole Kidman è a dir poco sontuosa, con al suo fianco un Tim Roth nobile co-protagonista. Qualche (sconsolato) tratto di “satiniana” memoria (Moulin Rouge!) nella sua Grace, prima di lasciar esplodere tutta la propria fibra di prima donna. Grace di Monaco. Attrice. Compagna di vita. La scena è sua. L'emozione è sua. Lo charme è suo. Il destino è il suo. Il Principato non è più stato lo stesso con l'arrivo di Grace di Monaco.

Il trailer di Grace di Monaco

Grace di Monaco - Padre Francis Tucker (Frank Langella) e la principessa Grace (Nicole Kidman)
Grace di Monaco - la principessa Grace (Nicole Kidman)
Grace di Monaco - la principessa Grace (Nicole Kidman) e il principe Ranieri (Tim Roth)

venerdì 23 maggio 2014

Alabama Monroe, una storia di dolore

Alabama Monroe, Una storia d'amore - la piccola Maybelle tra le cure dei genitori
Delicata e dolorosa storia d'amore. Per Alabama e Monroe la favola presto sfiorisce diventando insostenibile stato di abbandono e rabbia.

di Luca Ferrari

Il contagioso vortice dell'amore e della musica. Un nucleo umano tra gli alti e bassi della vita. Poi qualcosa accade. Il sorriso si fa cicatrice. Una promessa si ritrae in monologo. Il mondo appare cannibale lasciando campo aperto ai troppi sbagli della civiltà umana. Ci vuole una dedica, allora. Una speranza. O almeno, nella migliore delle ipotesi, anche solo una nuova strada. Alabama Monroe – Una storia d'amore (2012, di Felix Van Groeningen).

Belgio, anni Duemila. Il fattore-musicista di bluegrass Didier Bontnick (Johan Heldenbergh) e la tatuatrice Elise Vandevelde (Veerle Baetens) s'incontrano. Scoppia la passione e l'amore. Nasce una figlia, Maybelle (Nell Cattrysse). Ancora bimba si ammala di cancro. Dopo cicli di chemioterapia, la piccolina muore. È la fine della coppia. Rancori sopiti sgorgano fuori in modo dirompente. Maybelle è solo la prima delle vittime.

Didier è pragmatico. Ateo. Arrabbiato. Eccede di “gomito”. Elise è un'artista. Più spirituale. Senza più la figlia vuole continuare a sentire/vedere la sua presenza. In una stella. In un uccello. Non può accettare che sia solo cenere come invece le replica il marito. La coppia deraglia. Inizia l'iter di parole non pensate realmente. Si disprezzano. Si feriscono. Si annullano. Perfino nel nome. Elise diventa Alabama, Didier lo chiama Monroe.

Sul palco di quello che sarà il loro ultimo concerto insieme, Didier esce dai confini della musica. Irrompe il dolore più lancinante. Predica. Attacca la religione. Attacca l'allora presidente americano George W. Bush, colpevole di aver bloccato gli esperimenti sulle cellule staminali che avrebbero potuto salvare la vita alla figlia e a tante altre migliaia di persone. Grida tutto il suo odio contro le divinità che annebbiano la mente degli uomini. È la fine. Di tanto. Di tutto. Di troppo. Il cerchio si è spezzato.

Alabama Monroe
non è solo una storia d'amore ferita dalla più atroce delle sofferenze e perdite umane. Entra nel merito di una questione ancora di pesante attualità. Una dimensione dove ancora oggi alcune malattie non vengono trattate a causa di ottusità religiose o figlie di moralismi bigotti e ignoranti. E ancora una volta la vita soccombe a precetti. S'inginocchia. Si ustiona nella pelle sfigurata dal veleno delle dittature ideologiche. L'osso sbatte sull'indifferenza del gelo della morte. Le persone si prostrano a proclami tramandati solo per consolidare potere e schiavitù.

Alla cerimonia degli 86° Premi Oscar, al Dolby Theatre di Los Angeles il 2 marzo scorso, nella cinquina delle nomination per il Miglior film straniero, insieme al danese Il sospetto (di Thomas Vinterberg), il cambogiano The Missing Picture (di Rithy Panh), l'italiano La grande bellezza (di Paolo Sorrentino) e il palestinese Omar (di Hany Abu-Assad), c'era anche lui, The Broken Circle Breakdown (di Felix Van Groeningen), diventato in italiano Alabama Monroe – Una storia d'amore.

A chi sia andata la statuetta, è storia nota a tutti (e dibattuta assai). Eppure, senza neanche dover arrivare a metà proiezione di Alabama Monroe, mi assillava già una domanda. Come e perché La grande bellezza avesse vinto a dispetto del suddetto film belga (o dello stesso danese), anch'esso di gran lunga più meritevole. Entrambe le pellicole toccano temi delicati (pedofilia, cure del cancro) a dispetto di una inflazionata e superficiale decadenza di una certa società italiana.

Alabama Monroe – Una storia d'amore. Due genitori perdono la loro bambina. La regia si sofferma con sguardo tragico-amorevole sulle calvizie sempre più incombenti della bambina. Il coinvolgimento è totale. Estremo. Pulsante. Ma quando nessuna cura è più in grado di fare alcunché, il pianto della madre abbracciata alla figlia ormai morta è un tuffo nell'abisso più disarmante. Domani il sole tramonterà. Dopodomani il leone ruggirà. Oggi i computer resteranno riaccesi. Maybelle però non c'è più.

La pioggia gelida del nord Europa investe con tutta la sua inesorabile veemenza il lutto insostenibile. Gli occhi vagano sulla terra ma non c'è riparo né veranda dove nascondersi. Non c'è respiro. Rimane la musica. La purezza del country originale americano (il bluegrass, appunto) si fa catino e rimbombo per tutta la disperazione. Prova a carezzare l'uomo nel proseguo del suo viaggio. Ci prova. Gli sta vicino. Senza chiedere nessun sacrificio. Dona solo amore e passione.

Il trailer di Alabama Monroe - Una storia d'amore

Alabama Monroe, Una storia d'amore - Elise (Veerle Baetens) e Didier (Johan Heldenbergh
Alabama Monroe, Una storia d'amore - a tutta musica bluegrass
Alabama Monroe, Una storia d'amore - la piccola Maybelle (Nell Cattrysse)
Alabama Monroe, Una storia d'amore - Elise (Veerle Baetens) e Maybelle (Nell Cattrysse)

mercoledì 21 maggio 2014

Gli amanti sopravvivono, il mondo no

Solo gli amanti sopravvivono - Eve (Tilda Swinton) e Adam (Tom Hiddleston)
Colti. Dandy. Bevitori di sangue senza colpo ferire. Chiamano gli umani "zombie". I vampiri di Jim Jarmusch sono amanti che vogliono solo sopravvivere.

di Luca Ferrari

Dimenticate l'epoca gotica dove sono sempre stati ambientati. Dimenticate gli amori adolescenziali tra creature differenti. Dimenticate l'oscurità da cui provengono. Anzi, no. Quella tenetela bene a mente. I vampiri di Jim Jarmusch ci vivono ancora oggi e il merito è tutto nostro. Di noi zombie umani capaci di sbranare il presente, gettando le basi per un futuro sempre più incerto e difficoltoso. E in un mondo così, Solo gli amanti sopravvivono. Forse.

Il vampiro Adam (Tom Hiddleston) se ne sta rintanato in una casa nei quartieri deserti di Detroit, un tempo terra di florido business e oggi lugubre e desolata. Fa il musicista, ma non si esibisce mai. Ha chitarre di tutte le epoche. Possiede un'invidiabile collezione di vinili. Esce solo la notte, di tanto in tanto travestito da chirurgo per procurarsi sangue fresco. Senza uccidere nessuno, comprandolo direttamente in ospedale.

Dall'altra parte del mondo, a Tangeri, vive un'analoga esistenza la moglie Eve (Tilda Swinton), meno asociale però del marito. Poco distante da lei c'è l'amico Marlowe (John Hurt). Anch'essi si cibano di sangue senza utilizzare alcun letale canino. Adam è inquieto. E in questi ultimi tempi sente oltre modo la presenza umana sempre più minacciosa all'intera sopravvivenza del pianeta. Eve allora lo raggiunge. Volo notturno con arrivo sempre di notte, s'intende.

Jim Jarmusch (Daunbailò, Dead Man, Coffee and Cigarettes, Broken Flowers) non è certo un regista convenzionale. A quattro anni dall'ultimo The Limits of Control (2009), torna sul grande schermo con una storia decadente, Solo gli amanti sopravvivono (Only lovers left alive). Lenta nell'evoluzione. Ironica e salace. Dove sul banco degli imputati ci finisce l'intero Pianeta, colpevole di distruggere tutto ciò che di buono la Natura ci ha fornito.

Stanno ancora combattendo per il petrolio o stanno già facendo le guerre per l'acqua? Domanda un esausto e tormentato Adam. Hanno già cominciato le seconde, risponde la dolce compagna. Un'esistenza, la loro, che sarà movimentata dall'improvvisata della sorella di lei, Ava (Mia Wasikovska), molto poco tollerata da Adam per comportamenti ancora troppo sanguinari.

A parte quando deve procurarsi il sangue, Adam esce di casa solo per sporadici giri in macchina con la sua dolce metà. Il fidato collaboratore umano Ian (Anton Yelchin) è l'unico ammesso in casa. La telecamera si sofferma con logorante poetica sulle case abbandonate a Detroit. Nessuna presenza di vita. Il teatro diventato parcheggio ben cattura una certa linea che trasforma sempre di più la cultura in business catodico.

È davvero l'amore il solo antidoto per salvarsi? Dall'amore in effetti nasce il rispetto, dal rispetto l'interesse di preservare la propria realtà e condividerla. Una strada questa abbandonata dall'umanità da tempo immemore. Forse non l'ha mai intrapresa. Chi ha i comandi, sfrutta e distrugge. Le conseguenze tanto, loro non le pagheranno. Quelle toccheranno ai loro “amati” nipoti-bis nipoti.

Eve e Adam, occhiali neri quasi sempre indosso quando non sono a casa. Hanno visto il mondo attraversare le epoche più oscure, ma forse nulla in confronto al presente. In questi giorni c'è la consapevolezza di ciò che sta accadendo e cosa accadrà, eppure si preme comunque l'acceleratore dell'autodistruzione. E quando non ci sarà più nulla da fare, si ucciderà ancora di più. Magari non tutti. A qualcuno basta un bicchiere di sangue ogni tanto per sopravvivere ancora. 

Guarda il trailer di Solo gli amanti sopravvivono

Solo gli amanti sopravvivono - Adam (Tom Hiddleston) e Eve (Tilda Swinton)
Solo gli amanti sopravvivono - Ava (Mia Wasikovska)
Solo gli amanti sopravvivono - Eve (Tilda Swinton) e Adam (Tom Hiddleston)

lunedì 19 maggio 2014

Cinema, cultura e internet

CICAE d'essai
Il cinema d'essai protagonista al 67° Festival di Cannes. Nuove cariche e un dibattito sull'asse del terzo millennio, cultura-internet.

di Luca Ferrari, ferrariluca@hotmail.it
giornalista/fotoreporter – web writer

Web, minaccia alle presenze in sala o prezioso alleato per avvicinare sempre di più il pubblico al grande schermo? Il dibattito è aperto. Se n'è discusso a Cannes, in occasione della 67° edizione del Festival Internazionale del Cinema (14-25 maggio) durante l'assemblea generale e internazionale dei Cinema d’Essai (CICAE).

In una sala gremita, il Presidente Detlef Rossmann è stato rieletto all’unanimità. Il presidente dell’associazione tedesca di cinema d’essai (AG Kino – Gilde e.V) Christian Bräuer invece, affiancherà come vice presidente della CICAE Domenico Dinoia, presidente della FICE (Federazione Italiana Cinema d’Essai) e Alain Bouffartigue (vice presidente della AFCAE, Francia).

Non solo cariche istituzionali. Come anticipato, nel corso dell'incontro è stato lanciato il dibattito sul tema “Il cinema, la cultura e internet”, moderato da Laurent Creton, professore all’università Sorbona di Parigi e direttore del Centro di Ricerca sul Cinema e l’Audiovisivo (IRCAV) dello stesso ateneo.

I rappresentanti dell’associazione hanno voluto porre l’accento sul ruolo essenziale di internet come mezzo di comunicazione e di servizio tra le sale e il pubblico. I dibattiti attuali sulla riduzione delle finestre di sfruttamento del prodotto cinematografico e sulle uscite simultanee in sala e in VoD (Video on Demand) sono stati invece accolti con riserva.

Gli esercenti e direttori dei festival membri della CICAE hanno ribadito poi il ruolo  insostituibile delle sale come luogo d’incontro e diffusione della cultura cinematografica, "la quale funzione non potrà venir sostituita dal VoD". La diversità dell’offerta delle sale d’essai e dei festival europei e il loro ruolo di intermediari con il pubblico garantisce ai film europei una diffusione efficace e ottimale.

"Le nuove forme di diffusione on-line non possono che essere concepite e testate in stretta collaborazione con i festival, le sale e le loro associazioni" ha sottolineato la CICAE - Federazione Internazionale dei Cinema d'Essai, "i risultati presentati a Cannes dalla Commissione Europea in merito ai progetti di azione preparatoria sulle uscite simultanee dei piccoli film europei non hanno per ora portato a un modello commerciale convincente".

Il dibattito è senza dubbio più attuale e aperto come non mai. La rete è un compagno insostituibile della vita quotidiana. La crisi economica e la facilità del download selvaggio possono di certo essere un elemento a favore della comodità casalinga rispetto al piacere di una sala. Questa è una realtà insindacabile. Ma da qui si può e si deve ripartire.

Il cinema è cultura. Un'offerta intelligente e mirata a seconda del territorio, unita a una politica di biglietti sempre più attenta al contesto specifico, potranno rendere il circuito d'Essai un valore aggiunto non solo per la filmografia specifica ma anche per la stessa città. Ancor di più se presentati film in lingua originale lì dove vi sia alta concentrazione turistica ma ancor di più universitaria.

Cannes - (da sx) Christian Bräuer (Vice-presidente CICAE), XavierTroussard 
(Head of Unit Europe Creative - MEDIA) e Detlef Rossmann (Presidente CICAE)

mercoledì 14 maggio 2014

Principessa Mononoke, condividiamo la vita

Principessa Mononoke - San e Ashitaka
Fiaba ecologista nel nome di un mondo aperto al dialogo. Dai delicati disegni di Hayao Miyazaki, Principessa Mononoke.

di Luca Ferrari

Spiritualità. Vendetta. Possesso. Sacrificio. Romanticismo. Mitologia. Futuro. Il grande cinema animato di Hayao Miyazaki ha qualcosa da dire, e lo fa con metafore, colori e poesia. A distanza di quasi vent'anni dalla sua uscita, in occasione della Festa del Cinema, è tornato sul grande schermo Principessa Mononoke (1997), uno degli indiscussi capolavori del regista nipponico, Premio Oscar 2005 nonché Leone d'Oro alla carriera alla 62° edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

Una maledizione dalle fattezze animali (cinghiali) si avvicina minacciosa a un villaggio. L'eroico Ashitaka, capo della tribù degli Emishi, ben conscio di cosa potrebbe comportare il suo gesto, si sacrifica e uccide la bestia. Le conseguenze si fanno subito sentire, e vedere. Una grossa macchia violacea compare sul braccio destro del giovane, equivalente a prossima morte. Come spiegatogli però dalla saggia del posto, la sola possibilità di tentare di cambiare un destino segnato è quello di recarsi verso le foreste proibite dell'Ovest, da dove ha avuto origine l'anatema.

A dorso del fido stambecco, ha inizio un viaggio che culminerà con l'incontro/scontro con due mondi opposti e fatali nemici. Da una parte la Natura, rappresentata dalla Principessa Spettro (Mononoke) San e lo Spirito della Foresta, dall'altra la comunità della Città di Ferro che distrugge i boschi e la montagna per produrre il prezioso materiale, guidata da Lady Eboshi e l'avido gruppo dei cacciatori capitanati dal finto monaco, Jigo. Ashitaka si trova nel mezzo di una guerra, e in ballo c'è la sua stessa vita.

Oltre due ore di film senza nessun effetto tridimensionale. Ancor più di allora, oggi nel terzo millennio inoltrato la storia della Principessa Mononoke è quanto di più attuale si possa immaginare. Senza nessun costoso effetto 3D, Miyazaki sorprende. La forma umana della divinità che si aggira nella notte è stupefacente. I piccoli candidi kodama, creaturine fatate del bosco, sono sogni senza età.

Miyazaki (La città incantata, Il castello errante di Howl, Si alza il vento) sposa la causa ambientalista ponendo l'annoso dilemma della coesistenza tra ecosistema e sviluppo. Sono davvero due facce (inconciliabili) della stessa medaglia? La natura è il prezzo che bisogna pagare per produrre energia e garantire sempre maggior agi alla razza umana?

Emblema e fulcro della storia miyazakiana, lei. San, la principessa Mononoke. È un'umana abbandonata e allevata dai lupi bianchi. Odia l'uomo e vuole difendere la Natura. Ashitaka però è diverso. Non è un assassino incapace di guardare oltre la sete di potere e ricchezza. I due si scontrano. Si feriscono. Si parlano. Si lasciano, ma non si odiano. Si incontreranno ancora. Anche se forse si amano, appartengono a due mondi diversi. Resteranno separati ma ci sarà sempre la possibilità di fermarsi e parlare. Un piccolo germoglio da cui far sbocciare un nuovo mondo.

Il trailer di Principessa Mononoke

Principessa Mononoke - i Kodama
Principessa Mononoke - il dio bestia
Principessa Mononoke - Lady Eboshi
Principessa Mononoke - San, la Principessa Spettro 

sabato 10 maggio 2014

Diversi fino a prova contraria

Fino a prova contraria - l'investigatore Ron Lax (Colin Firth)
Un crimine atroce. Tre bambini uccisi. I capri espiatori sono tre adolescenti emarginati. Devil’s knot – Fino a prova contraria (2014, di Atom Egoyan).

di Luca  Ferrari

Simpatizzanti delle atmosfere gotiche e occulto. Adolescenti alle prese con esistenze complicate e gusti non conformi alla massa. Quanto basta per venire accusati, incriminati e condannati per il triplice omicidio di tre bambini. Sono i bersagli più facili e la massa non perdona. Sempre pronta a colpire il diverso senza scomodarsi a cercare il male nei posti più impensabili. Dentro casa. Devil’s knot – Fino a prova contraria (2014, di Atom Egoyan).

È un tranquillo pomeriggio come altri nella cittadina di West Memphis. Christopher Byers, Stevie Branch e Michael Moore, tutti di otto anni, vanno a fare un giro in bicicletta. È pomeriggio. Non torneranno mai più a casa. Verso sera intanto un uomo sporco di sangue (e di fango) entra in un locale. Non sarà mai trovato né cercato. Le indagini si concentrano subito su tre adolescenti: Damien Echols, Jessie Misskelley Jr. e Jason Baldwin, inchiodati da un bambino scampato all’eccidio che li indica tutti quanti raccontando anche dettagli. Un bambino che poi ritratterà tutto, inclusa la fantasiosa storia della madre. 

Il bigottismo imperante chiede degli assassini, possibilmente diversi. Così è. Tutti sono contro di loro. Tutti meno uno. L’investigatore privato Ron Lax (Colin Firth). Offre la propria disponibilità a supportare gli avvocati difensori. Per lui è una questione morale. È fermamente contrario alla pena di morte. E poi non crede nemmeno alla colpevolezza dei tre imputati.

Tra le famiglie colpite da questa immane disgrazia, il patrigno di Chris, John Byers (Kevin Durand) ha un coltello sporco di sangue di cervo, di cui però non sa spiegare come ci sia finito sangue umano (non suo). Dell’altra, la mamma di Stevie, Pamela Hobbs (Reese Whiterspoon) in principio punta il dito contro i tre presunti satanisti. Si comporta come una tipica WASP. Arriva perfino a farsi battezzare per affrontare il Demonio, poi però lei stessa comincia a guardare oltre. Osserva impotente le falle del processo. Guarda suo marito con sospetto. Comincia a pensare che quei tre magari saranno un po’ strani, però non fa di loro degli spietati assassini.

Fatti realmente accaduti. Il regista canadese Atom Egoyan porta sul grande schermo l'incredibile storia dell'incarcerazione per 18 anni dei cosiddetti Tre di West Memphis. Devil’s knot – Fino a prova contraria non racconta solo un fatto di cronaca americano gestito in modo allucinante dalle istituzioni giudiziarie e dalla polizia. Allarga la prospettiva dentro un mondo che non è per niente cambiato e che ancora oggi (af)fonda le sue radici sull’emarginazione e l’abuso dei più deboli.

Nel Medioevo bastava avere i capelli rossi per essere accusati di stregoneria e bruciati, oggi basta credere in una religione per essere etichettati come terroristi e torturati. Quello che non segue la massa è ancora visto male. Un ostacolo che deve essere spazzato via per non intaccare lo status quo. Il diverso fa porre delle domande. Sforzi che il gregge non vuole affrontare. Il diverso deve essere allontanato. In un modo o nell’altro. Punto e basta.

Succede durante l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e nel mondo del lavoro. È sempre successo e continuerà. Un capello un po’ più lungo. Un gusto artistico più estremo. Un abbigliamento che non rispecchia il piattume della società locale. Un’ideologia che non si conosce se non per sentito dire (spesso) da organi d’informazione ignoranti e di parte. Il mondo è pieno di innocenti. E prima che nuovi Christopher, Stevie e Michael vengano uccisi e altri Damien, Jessie e Jason vengano etichettati e sfregiati per sempre, bisogna elevarsi. Tutti.

Fino a prova contraria - Stevie e sua madre Pamela Hobbs (Reese Whiterspoon)
Fino a prova contraria - i tre bambini
Fino a prova contraria - al centro gli imputati:
Jason Baldwin (Seth Meriwether) e Damien Echols (James Hamrick)

venerdì 9 maggio 2014

Luisa Ranieri, la madrina di 71. Venezia

Luisa Ranieri
L’attrice napoletana Luisa Ranieri sarà la madrina delle serate di apertura e chiusura della 71. Mostra del Cinema di Venezia (27 agosto – 6 settembre).

di Luca Ferrari

Da Leonardo Pieraccioni al premio Oscar onorario Michelangelo Antonioni, passando per Vincenzo Salemme, Pupi Avati, Edoardo De Angelis, Paolo Genovese, Neri Parenti fino a Ferzan Özpetek. Dopo essere stata diretta da celebri registi in Italia e all'estero, l'attrice napoletana Luisa Ranieri sta per passare dall'altra parte del grande schermo. Sarà lei infatti la madrina delle serate di apertura e chiusura della 71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Charme, eleganza e professionalità. Luisa Ranieri sarà a suo perfetto agio sul palco della Sala Grande del Palazzo del Cinema al Lido. Due le grandi occasioni in cui sarà presente. La cerimonia d'inaugurazione mercoledì 27 agosto e nel corso della giornata finale,  sabato 6 settembre, quando saranno annunciati i Leoni e gli altri premi ufficiali del festival.

Dopo il debutto cinematografico nel divertente Il principe e il pirata (2001, di Leonardo Pieraccioni), appena tre anni dopo Luisa Ranieri fa il suo ingresso nel cinema d’autore diretta da Michelangelo Antonioni nell’episodio “Il filo pericoloso delle cose” del film Eros (2004), presentato alla 61. Mostra di Venezia.

Molte presenza anche nella televisione. Tra le varie partecipazioni ha interpreta il ruolo di Assunta Goretti nella miniserie di Rai 1, Maria Goretti (2003, di Giulio Base). È stata la cantante Maria Callas nella fiction di Canale 5, Callas e Onassis (2005, di Giorgio Capitani). È la protagonista femminile di La omicidi (2004) e Cefalonia (2005), diretti entrambi da Riccardo Milani. Nel 2005 affianca Adriano Celentano nel programma tv-evento Rockpolitik.

Alternatasi sempre con successo tra piccolo e grande schermo, nel 2009 è tra i protagonisti del film corale Gli amici del bar Margherita (2009, di Pupi Avati). Spazio anche al teatro. Tra il 2009 e il 2010 recita ne L'oro di Napoli di Gianfelice Imparato e Armando Pugliese, trasposizione teatrale dei racconti di Giuseppe Marotta divenuti celebri grazie all'omonimo film di Vittorio De Sica dove interpreta sia il ruolo che fu di Sofia Loren, sia quello di Silvana Mangano.

Nel corso degli anni lavora anche con produzioni americane e francesi: Letters to Juliet (2011, di Gary Winick), Le marquis (2011, di Dominique Ferrugia) e Bienvenue à bord (2011, di Éric Lavaine). Sempre nel 2011 prende parte al pluripremiato Mozzarella Stories di Edoardo De Angelis. Quest'anno infine era tra i protagonisti di Allacciate le cinture (2014, di Ferzan Ozpetek).

l'attrice napoletana Luisa Ranieri

mercoledì 7 maggio 2014

Gran Torino, Clint Eastwood ruggisce ancora

Gran Torino - Walt Kovalski (Clint Eastwood)
Pistolero, ispettore di polizia o pensionato razzista, il vecchio Clint Eastwood è sempre dalla parte dei più deboli, anche al volante di una Gran Torino.

di Luca Ferrari

“Avete mai fatto caso che ogni tanto s’incrocia qualcuno che non va provocato? Quello sono io”. A pronunziare queste ringhiose parole contro i classici teppisti moderni, è il burbero pensionato Walt Kowaslki, interpretato da Clint Eastwood nel film diretto da se medesimo, Gran Torino (2009). Una storia malinconica ma ricca di quella forza di chi ha deciso di combattere e lottare fino alla fine. A qualunque costo.

Ex-operaio della Ford, poco amante degli stranieri, della religione e alle prese con un nuovo vicinato orientale, Kowaslki è un uomo solo nei suoi pensieri. Ha appena perduto la moglie. Ha due figli con prole con cui non ha niente in comune. Walt è solo nella sua guerra personale. È un uomo però che ha il coraggio di alzare la testa. Si sente ancora le mani sporche di sangue per la guerra combattuta in Corea. Il suo cane Daisy e la sua macchina d'epoca Gran Torino sono la sola famiglia che ha.

Superando i suoi stessi pregiudizi (altro fatale nemico) dei vicini, prima li difende, poi inizia ad instaurare rapporti umani e infine, di fronte allo stupro della giovane Sue (Ahney Her), arriverà a sacrificarsi nel nome di una generazione migliore, regalando così al fratello di lei, Thao (Bee Wang), un'alternativa alla vendetta e forse un avvenire.

Come anche nel precedente Million Dollar Baby (2004) diretto da Eastwood, il riluttante protagonista si confronta con la fede. In Gran Torino c'è padre Janovich (Christopher Carley). Un incontro/scorso tra lui e Kovalski con quest'ultimo che comincia dalla strada dell'indifferenza, passa a battute al vetriolo e infine plana sul rispetto.

Walt Kowaslki non è di questa epoca. Lui non chiude la serranda dinnanzi ai problemi. Agisce. Minaccia. Colpisce, anche a costo della propria vita. Un veterano contro stupidi adolescenti. Guai a chi osa minare la libertà altrui. Gli anni accumulati non frenano la sua rabbia contro le gang. Il branco sbrana e decide. Walt lo sa. Ma agisce lo stesso.

Gran Torino è una storia umana dove il lieto fine non fa rima con i titoli di coda. Gli ultimi fotogrammi vedono il giovane Thao (ribattezzato ironicamente dal Walt, “Tardo”) sfrecciare sulla sua macchina lasciatagli in eredità, e non alla menefreghista nipote Ashley (Dreama Walker). E forse dovremmo chiederci tutti quanti: dove andrà Thao? Cosa farà? Chi diventerà?

Il trailer di Gran Torino

Gran Torino - Sue (Ahney Her)
Gran Torino - Thao (Bee Vang) e Walt Kovalski (Clint Eastwood)