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lunedì 29 febbraio 2016

Sarajevo città assediata

Benvenuti a Sarajevo (1997, di Michael Winnterbottom)
Vent’anni fa esatti, il 29 febbraio 1996, finiva il sanguinoso assedio di Sarajevo nell’ignorata Guerra dei Balcani. La politica come il cinema l’hanno dimenticata.

di Luca Ferrari

Sarà perché sono i miei vicini di casa ma la guerra dei Balcani sanguina ancora nei miei ricordi, passati e presenti. Un orribile massacro perpetrato in particolare ai danni dei bosgnacchi (i musulmani bosniaci) di cui la Comunità Internazionale non si curò. E anche il cinema non è stato da meno. Tralasciando prodotti indipendenti, solo rarissime grandi produzioni hanno toccato l’argomento. Perché?

È facile raccontare ciò che non c’è più. Aldilà di sparuti e propagandistici proclami dalle parti di Teheran e in qualche scatola cranica vuota, sull’orrore perpetrato dai Nazisti nella II Guerra Mondiale non vi è alcun dubbio. Il problema semmai è che a giudicare dai servizi di Rai Storia, fiction e film, sembra che dal ’45 in poi il mondo abbia trovato la pace universale. Le cose non sono andate esattamente così.

Elencare le guerre dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi mi porterebbe via non so quanto tempo. Anche ora, in questo istante che sto scrivendo, sono in corso scontri sanguinosi: Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen, etc. Alcuni dichiarati, altri no. O meglio, ignorati. Emblema di tutto ciò, la Guerra dei Balcani (1991-’95), di cui oggi 29 febbraio 2016 ricorre il ventennale della fine del sanguinoso assedio di Sarajevo, il più lungo della storia postbellica.

Non posso pretendere che all’egocentrica Europa interessi davvero qualcosa che succede al di fuori dei propri Illuministici e ipocriti confini (inclusi i genocidi perpetrati in Africa, Australia e Sud America), ma mi sorprende (si fa per dire) che di un conflitto avvenuto nel proprio cuore multietnico, l’ex-Jugoslavia per l’appunto, non vi sia il minimo sentimento di commemorazione né ricordo con la sola (tardiva) eccezione del genocidio di Srebrenica.

Perché si è parlato-parla così poco della guerra dei Balcani? Forse si vuole fargliela pagare per essere stata una nazione comunista (per la cronaca il capo supremo dell’ex-Jugoslavia, Tito, era uno dei pochi non allineati né con gli USA né con l’URSS) o magari per le atrocità delle foibe? O forse perché alla stregua dei nazisti gli slavi non sono altro che zingari e quindi se si vogliono massacrare tra di loro, facciano pure?

Qualcosa proprio non mi torna e l’ignoranza sull’argomento è a tratti desolante. Se avessi la voglia (e il tempo) di piazzarmi fuori dalle università in stile Walter Veltroni-Quando c’era Berlinguer (2014), sono certo quasi nessuno saprebbe circoscrivermi quella guerra. Parlarmi delle forze in campo. Quando e perché è iniziata, etc. Eppure parliamo di un conflitto piuttosto recente.

In concomitanza con ogni Giornata della Memoria (27 gennaio), puntuali cinema e televisione si scatenano con tutto il possibile sulla Shoah. Quest’anno inoltre sul grande schermo sono arrivati Remember (di Atom Egoyan), presentato a Venezia, e il toccante Il labirinto del silenzio (di Giulio Ricciarelli, prossimamente su cineluk la recensione).

Senza entrare nell’orticello di film indipendenti visti da pochi eletti, se penso a film arrivati al grande pubblico che trattano l’argomento Balcani, ecco: 

  • Benvenuti a Sarajevo (1997, di Michael Winnterbottom con Woody Harrelson, Marisa Tomei)
  • No Man’s Land (2001, di Danis Tanovic), vincitore del Golden Globe e premio Oscar come Migliore film straniero
  • The Hunting Party (2007, di Sam Shepard con Richard Gere, Terrence Howard e Jesse Heisenberg)
  • Venuto al mondo (2012, di Sergio Castellitto con E. Hirsch e Penelope Cruz)
  • A Perfect Day (2015 di Fernando Leon de Aranoa, con Benicio Del Toro, Olga Kurylenko e Tim Robbins)

Emblema di tutto ciò, Nella terra del sangue e del miele (2011) il primo film da regista della premio Oscar, Angelina Jolie. Una superstar mondiale che non riuscì a trovare una distribuzione in Italia. Davvero assurdo, o quanto meno curioso. Menzione a parte per il documentario Miss Sarajevo (1995) di Bill Carter, di cui vennero estrapolati spezzoni per l’omonima canzone-videoclip interpretata dalla rockstar Bono (U2) e il tenore Luciano Pavarotti.

I Balcani non interessano, è indubbio. La Bosnia è una nazione abbandonata a se stessa senza che a Bruxelles freghi nulla. A parte i grossi nomi, i tanti criminali di guerra circolano senza problemi e la UE in tutto questo non mette bocca. Impegno pari allo zero assoluto. In linea perfetta il piccolo e grande schermo, tanto probi a raccontare le sofferenze del popolo ebraico, del tutto indifferente a uno sterminio che ha visto tornare in Europa i famigerati campi di sterminio.

Ma forse è proprio questo il punto: l’ex-Jugoslavia non viene considerata Europa o comunque un'Europa minore. È una cosa a parte. E dunque val bene il menefreghismo. I criminali nazisti o sono morti o stati processati. Moltissimi criminali della Guerra dei Balcani sono ancora liberi. Per capire il presente serve conoscere il passato, ma quest’ultimo non è una prerogativa del ’15-18 o del ’39-’45. Sarebbe ora che anche il cinema e non solo facesse la sua parte.

Venuto al mondo (2012, di Sergio Castellitto)
The Hunting Party (2007, di Sam Shepard)

venerdì 26 febbraio 2016

Il mala-comic Lo chiamavano Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot - Enzo (Claudio Santamaria) e Alessia (Ilenia Pastorelli) © E. Scarpa
Più mala-fiction, meno cinecomic. Esperimento originale Lo chiamavano Jeeg Robot (2016), primo lungometraggio di Gabriele Mainetti dal risultato ambiguo.

di Luca Ferrari

“Non gli avevo dato troppa importanza poi il trailer mi convinse e penso che potrebbe essere la sorpresa del 2016”. A pronunziare queste sibilline parole, proprio il sottoscritto qualche giorno fa, commentando su Facebook un post del direttore editoriale di Best Movie, Luca Maragno. A malincuore mi sono dovuto ricredere. Lo chiamavano Jeeg Robot (2016, di Gabriele Mainetti) è un ibrido poco riuscito tra le fiction sbirro-mafiosa e in minima (ma proprio minima parte) cinecomic. Il cinema italiano ci ha provato ma il risultato non è né carne né pesce. Anzi, forse è più carne e pure stopposa.

In un'ipotetica ma attuale Italia segnata da attacchi bombaroli, il solitario lestofante Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) vive di furtarelli appoggiandosi a conoscenti affiliati e a piccoli boss locali. La sua vita cambia del tutto quando, inseguito da due poliziotti (dall'aspetto paiono più sbandati del malvivente), finisce nelle acque del Tevere entrando in contatto con degli oleosi barili radioattivi.

Il risultato? Una forza sovrumana capace di fargli sradicare un bancomat intero e portarselo direttamente a casa. Inevitabile che nell'epoca del “grande fratello”, un simile gesto non passi inosservato ed eccolo finire su Youtube diventando suo malgrado quasi una star. Un effetto questo per niente gradito dallo zingaro (Luca Marinelli), alla disperata ricerca di attenzione criminale dopo aver assaggiato la notorietà (…) anni or sono esibendosi a Buona Domenica.

Ha inizio una sfida a distanza. Da una parte un uomo senza bandiera alla ricerca di un minimo di normalità, dall'altra un pazzo disposto a tutto pur di vedere il proprio nome e soprattutto la propria faccia sui telegiornali a rete unificate. A far incrociare i due personaggi, la giovane e traumatizzata Alessia (Ilenia Pastorelli), figlia del collega Sergio (Stefano Ambrogi), che dopo averlo visto in azione, scambia Enzo per il supereroe Hiroshi Shiba, l'eroe del manga Jeeg root d'acciaio.

Esperimento interessante Lo chiamavano Jeeg Robot ma a dispetto del richiamo d'oltreoceano del cinecomic, nel DNA del regista italiano è ancora troppo forte la cine-cultura del Bel paese. È sempre la solita mafia romano-napoletana vista e stravista anche nel recente e mediocre Suburra (2015, di Stefano Sollima). È sempre la solita malavita violenta e padre-eterna.

Nessuno certo si poteva (né voleva) aspettare un Iron Man sfrecciare davanti a Castel Sant'Angelo o un probo “Captain Italia” ergersi davanti al Quirinale, ma l'aver ammiccato così tanto al genere in questione ha creato inevitabili aspettative. Mainetti cerca la sua strada ma pecca forse di esasperato “Tarantismo”, volendo mettere in poco meno di due ore di lungometraggio (il suo primo) troppi generi, strizzando l'occhio anche al pulp e alla commedia a stelle e strisce.

Fin troppo esasperato l'isolamento di Enzo. Antieroe all'inverosimile. Non ha amici. Si ciba solo di mini-yogurt o budini che sia, guarda dvd porno e non ha nessuna amicizia. Sembrava dovesse essere chissà quale personaggio lo Zingaro, ma alla resa dei conti non è tanto diverso dai tanti giovani malavitosi frustrati moderni che vogliono rispetto e conquistare il mondo. Guarda al Joker di Heath Ledger ma non abbastanza cattiveria né intelligenza.

A salire in cattedra al contrario è la coprotagonista femminile, Alessia. È una giovane donna ma ha l'anima di una bambina. Abusata, ha trovato rifugio nel manga giapponese di Jeeg Robot d'acciaio e quando vede questo fantomatico incappucciato salvarle la vita facendo cose che nessun umano sarebbe mai stato in grado, per lei e la sua mente turbata non ci sono dubbi, lui è Hiroshi Shiba, l'umano che si trasforma in Jeeg.

Entra nel mondo di Lo chiamavano Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot - lo Zingaro (Luca Marinelli) © Emanuele Scarpa
Lo chiamavano Jeeg Robot - Enzo (Claudio Santamaria) © Emanuele Scarpa

giovedì 25 febbraio 2016

Potevi essere tu Il caso Spotlight

Il caso Spotlight - una vittima degli abusi della Chiesa
Sacerdoti abusavano di minori. La Chiesa li coprì. La città tacque. Un’inchiesta del Boston Globe rivelò l'atroce verità al mondo. Il caso Spotlight (2015, di Tom McCharty).

di Luca Ferrari

“Potevo essere io, potevi essere tu…” inveisce l’esausto-arrabbiato reporter del Boston Globe, Michael Rezendes, dinnanzi a una scoperta allucinante. I piani alti della Chiesa sapevano e hanno ignorato-insabbiato i costanti abusi di alcuni dei loro sacerdoti ai danni di minori. La verità adesso sta per venire a galla e sarà l’indomita stampa a farla emergere e gridarla al mondo intero. Presentato nella sezione Fuori concorso alla 72° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è sbarcato al cinema Il caso Spotlight (2015, di Tom McCharty).

Il potere da una parte, la libera informazione dall'altra. È uno scontro impari e il verdetto è quasi sempre lo stesso. Scontato. Fatale. Ingiusto. Ci sono dei casi però in cui l'essere umano è più forte dell'interesse e allora la Storia cambia. E allora qualche vittima viene risparmiata. E allora si ha l'illusione che il mondo possa davvero mutare il proprio corso se ci sono uomini coraggiosi che si battono per esso e qualcuno è pronto a sostenerli.

Stati Uniti, 2001. Alla direzione del Boston Globe è arrivato un nuovo direttore: Marty Baron (Liev Schreiber). Non è un giornalista nativo della città come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi ma è uno che sa il fatto suo. È pacato ma deciso. Una volta insediato incontra subito Walter Robinson detto Robby (Michael Keaton), caporedattore del team investigativo Spotlight, a cui sottopone l’idea di occuparsi di qualcosa che il giornale fin’ora aveva trattato con blanda superficialità: la pedofilia clericale.

Supervisionato dal navigato Ben Bradlee Jr. (John Slattery), il team Spotlight è composto da Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Matt Carroll (Brian d'Arcy James) e appunto il loro caporedattore Robby. La sfida è ardua e le porte sono in principio tutte chiuse. Bisogna incontrare persone e chiedere loro di rivivere drammi atroci. Bisogna chiedere loro di metterci la faccia e il proprio nome, facendoli così rivivere quell'incubo obbligandoli indirettamente a parlarne con famiglia e amici (forse) per la prima volta.

Ma se le vittime sono per certi versi la parte più facile da convincere, la vera battaglia la si combatte contro chi ha lasciato che ciò venisse perpetrato. E non mi riferisco solo a quegli intoccabili carnefici in tunica e ostia, ma a quell’omertà dilagante nella città di Boston dove tutti sapevano (media inclusi) ma nessuno ha fatto niente. Hanno lasciato che accadesse.

Si sono convinti che non avrebbero mai potuto intaccare un’autorità così potente come la Chiesa nella cattolicissima Boston. E ciò che è peggio, è che non sembra sfiorare nessuno l’idea che una simile violenza sarebbe potuta accadere anche a loro (cosa ben espressa da una sfuriata di Rezendes ai colleghi una volta acquisite le prove schiaccianti). Quasi a sussurrare che chi ha subito, forse se l’è cercata (tesi per altro ancora avvallata nei processi in milioni di casi di stupro).

Ed è proprio Robby a toccare con mano questa ignobile situazione. Lui, “nobile” studente in quella scuola dove accaddero un sacco di casi di violenze. Le parole attorno a lui sono quelle della mediazione. Le parole che si stringono attorno al suo collo sono quelle di una sorta di ricatto morale. Come se raccontare la verità sputtanasse la città di Boston (cosa che ricorda molto le prese di posizione sulla Mafia dell'ex-presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi), e dunque sia meglio nasconderla.

Un cast al limite della perfezione quello de Il caso Spotlight. Da una parte il sangue arruffato di Mark Ruffalo, Michael Keaton e John Slattery. Dall’altra, la quiete determinata di Liev Schreiber, Rachel McAdams e Bryan d’Archy James. Puntano alla medesima giugulare ma la forze vanno calibrate. Puntano tutti alla stessa testa di ponte e ognuno giorno dopo giorno, intervista dopo ricerca, guadagna metri su metri verso la conquista della verità. Altro pezzo del puzzle (di altissima qualità), l'istrionico Stanley Tucci, nei panni dell'avvocato Mitchell Garabedian.

Per i tanti colleghi della carta stampata (in particolare) c’è spazio anche per una sorta di romanticismo del mestiere. Dopo le tante fatiche, esterne e interiori, ecco finalmente il giorno della pubblicazione. La telecamera di McCharty si sofferma sui macchinari fino all’uscita del giornale. Ed eccolo lì Robbie, appollaiato dentro la sua automobile, a puntare i furgoni del Boston Globe traboccanti di copie pronte per essere distribuite in città e in tutto il mondo. Il suo sguardo li segue dal momento dell’uscita, come farebbe un genitore con i suoi pargoli al primo appuntamento.

Tutti siamo stati bambini. Molti di noi avranno figli eppure questa non sembra impedire alla gente di proteggere chi compie atti indegni per un uomo, e ancor di più per chi vive predicando l'amore. Una pagina nera di cronaca del terzo millennio quella raccontata dal Boston Globe (e che li valse il premio Pulitzer) che rischiò di essere inghiottita dal fumo nero del crollo delle Torri Gemelle, ma che trovò comunque la strada della pubblicazione grazie a un nugolo di appassionati giornalisti animati dal mero desiderio di far si che nessuno debba più subire una simile e umiliante violenza.

Il caso Spotlight è stato nominato a molti premi raccogliendo forse troppo poco, ma comunque lasciando il segno agli Academy. Conquistato il BAFTA per la Miglior sceneggiatura originale (Tom McCarthy e Josh Singer) e fallito l'appuntamento coi Golden Globe (zero su tre nomination), agli Oscar si è presentato con sei candidature. Candidato per il Miglior film, regia (Tom McCarthy), attore non protagonista (Mark Ruffalo), attrice non protagonista (Rachel McAdams), sceneggiatura originale a (Josh Singer e Tom McCarthy) e montaggio a (Tom McArdle), si è portato a casa le statuette per il film e la sceneggiatura.

Caratterialmente il sottoscritto è di sicuro più un Rezendes, ma dopo questo film i Marty Baron sono diventati i miei veri modelli. A loro non basta la notizia da prima pagina. Quella serve solo a sparare un petardo nel cielo. Ai Marty Baron non interessa far rumore. Loro vogliono colpire il sistema. I Marty Baron non mandano in stampa notizie da sensazione. L'inchiostro sarà inciso solo quando si potrà colpire l'origine. Questo è grande giornalismo. Questo è il giornalismo de Il caso Spotlight (2015, di Tom Mcharty).

Il trailer de Il caso Spotlight

Il caso Spotlight - l'avvocato Garabedian (Stanley Tucci) e il giornalista Rezendes (Mark Ruffalo)
Il caso Spotlight - il team Spotlight, da sx: Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Walter "Robby" Robinson (Michael Keaton), Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e Matt Carroll (Brian d'Arcy James)

lunedì 22 febbraio 2016

Oscar 2016, premiare e raccontare

Il cinema assegna i Premi Oscar
Tutti a guardare solo ed esclusivamente Leonardo DiCaprio ma l'88° edizione dei Premi Oscar ha storie più importanti da raccontare e si spera, anche premiare.

di Luca Ferrari


And the Oscar goest to... ormai manca davvero poco per sentire pronunziata, più e più volte, questa fatidica frase. Domenica 28 febbraio si svolgerà al Dolby Theatre di Los Angeles l’88° edizione dei premi Oscar, presentati per la seconda volta in carriera dal simpatico Chris Rock. In Italia (nella notte tra domenica e lunedì) la cerimonia sarà trasmessa su Sky Cinema e, come l'anno passato, anche in chiaro su Cielo (canale 26 del Digitale Terrestre).

Chi trionferà agli 88° premi Oscar? Revenant – Redivivo (di Alejandro González Iñárritu) guida la classifica delle nomination con 12 candidature seguito a quota 10 dal “discutibile” Max Max: Fury Road (di George Miller). Terza piazza dall’altrettanto zeppo di effetti speciali, Sopravvissuto – The Martian (di Ridley Scott). Curioso come tutte le tre pellicole abbiano in comune una storia di esasperata sopravvivenza. Tre storie costose e dal facile appeal commerciale.

Di ben diverso tenore i tre successivi lungometraggi a quota 6 nomination: Il ponte delle spie (di Steven Spielberg), Il caso Spotlight (di Tom McCharty) e Carol (di Todd Haynes); a quota 5 invece La grande scommessa (di Adam McKay). Quattro storie queste che hanno davvero qualcosa da insegnare: un pezzo (epico) di Guerra Fredda, un'inchiesta giornalistica, l'identità sessuale contro il perbenismo e la famigerata crisi economica di questo millennio. Quattro storie che hanno molto più da insegnare di fantasmagoriche imprese marziane, patetici remake forti di tutto fuorché prove attoriali degni di questo nome e il classico filmone realizzato apposta per fare incetta di premi.

Film a parte, l’attenzione della stampa è tutta (o quasi) su Leonardo DiCaprio, alla quinta nomination e fin’ora mai uscito trionfante dal gala' degli Academy. Eppure nessuno si prende la briga di sottolineare la monotonia dei personaggio interpretati dall’attore californiano. Tutti drammatici. Tutti urlanti. Se penso a Leo, l’ultimo film davvero originale che ricordo è Prova a prendermi (1991, di Steven Spielberg) e in parte Django Unchained (di Quentin Tarantino).

A fare strabuzzare gli occhi del sottoscritto invece è l’assenza di Steve Carell nella cinquina del Miglior attore. Certo, il suo compagno di set Christian Bale è molto più appetibile al grande pubblico, e lui infatti è tra i candidati. Carell è un attore versatile. Comico, drammatico, realistico. Ha tutto. Nell’intenso La grande scommessa è stato il vero mattatore, molto più di Gosling, Pitt (Brad) e Bale messi insieme. Invece nulla.

Per lo scettro del Miglior film se la vedranno: La grande scommessa (di Adam McKay), Mad Max: Fury Road (di George Miller), Revenant – Redivivo (di Alejandro González Iñárritu), Room (di Lenny Abrahamson), Il caso Spotlight (di Tom McCarthy), Sopravvissuto – The Martian (di Ridley Scott), Il ponte delle spie (di Steven Spielberg), e Brooklyn (di John Crowley); i primi cinque candidati anche per la Miglior regia.

Per il Miglior attore protagonista, oltre che con l’Academy-uscente Eddie Redmayne (strepitoso in The Danish Girl), Leo se la vedrà col grandioso Bryan Cranston di L'ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, Matt Damon (Sopravvissuto – The Martian) e, altro cavallo di razza, Michael Fassbender per la sua sontuosa interpretazione nel grandioso Steve Jobs (di Danny Boyle).

A parte il già citato Revenant che presenta anche Tom Hardy in questa nuova cinquina, il Miglior attore non protagonista sarà una questione tra Christian Bale (La grande scommessa), l’istrionico e coinvolgente Mark Ruffalo (Il caso Spotlight), Mark Rylance (Il ponte delle spie) e l’immortale Sylvester Stallone per il suo Rocky di Creed – Nato per combattere, interpretazione questa che gli ha già fatto vincere il primo Golden Globe della carriera.

Due nomination dello stesso film anche sul fronte femminile e non poteva essere altrimenti dopo aver visto Carol, film che ha messo in campo le superbe performance di Cate Blanchett e Rooney Mara, candidate rispettivamente come Miglior attrice protagonista e non protagonista. Sulla sua strada l’australiana già due volte vincitrice dell’ambita statuetta, fronteggerà Brie Larson (Room), Jennifer Lawrence (ottima in Joy di David O. Russell, vincitrice del Golden Globe 2016), Charlotte Rampling (45 anni) e Saoirse Ronan (Brooklyn).

Per la giovane Rooney invece, alla seconda nomination dopo Millennium – Gli uomini odiano le donne, l’attesa sarà condivisa con Jennifer Jason Leigh (The Hateful Eight), Rachel McAdams (Il caso Spotlight), Alicia Vikander (The Danish Girl) e la fresca “GoldenGlobata” Kate Winslet (Steve Jobs).

Un grande film passa per sempre per una grande storia. L’Oscar per la Migliore sceneggiatura originale sarà una bella sfida che vedrà in campo i fratelli Coen insieme a Matt Charman ne Il ponte delle spie. Altrettanto degne presenze quelle di Alex Garland per Ex Machina e la coppia Tom McCarthy & Josh Singer nel film giornalistico Il caso Spotlight.

Altra importante presenza, il film Straight Outta Compton, basato sull’ascesa e discesa dei N.W.A., il più influente gruppo rap statunitense del genere gangsta dove militavano anche Ice Cube e Dr. Dre, la cui sceneggiatura è stata curata da Andrea Berloff, Jonathan Herman, S. Leight Savidge e Alan Wenkus. Infine, ecco la sorpresa. L’animazione Pixariana di Inside Out con al centro delle operazioni Josh Cooley, Ronnie del Carmen, Pete Docter e Meg LeFauve.

La grande scommessa (Charles Randolph e Adam McKay), Brooklyn (Nick Hornby), Carol (Phyllis Nagy), The Martian (Drew Goddard) e Room (Emma Donoghue) sono invece le cinque pellicole che saranno esaminate per decretare la Migliore sceneggiatura non originale.

Scartato per ragioni assurde il ficcante lungometraggio belga Dio esiste e vive a Bruxelles, il Miglior film straniero sarà una questione tra Colombia (El abrazo de la serpiente, regia di Ciro Guerra), Francia (Mustang, regia di Deniz Gamze Ergüven), Ungheria (Il figlio di Saul, di László Nemes già vincitore del Golden Globe 2016), Giordania (Theeb, di Naji Abu Nowar) e Danimarca (A War, di Tobias Lindholm).

Infine il Miglior film d’animazione. Tutto sembra far propendere all’ennesimo Oscar per la Pixar Animation Studios che con Inside Out (di Pete Docter e Ronnie del Carmen) raggiungerebbe quota 13. A sbarrargli la strada ci proveranno il "veneziano" Anomalisa (di Charlie Kaufman e Duke Johnson), Il bambino che scoprì il mondo (di Alê Abreu), Shaun, vita da pecora – Il film (di Mark Burton e Richard Starzak) e il toccante Quando c'era Marnie (di Hiromasa Yonebayashi), direttamente dalla fabbrica delle meraviglie nipponica dello studio Ghibli.

L'ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (2015, di Jay Roach)
Steve Jobs (2015, di Danny Boyle)
Straight Outta Compton (2015, di F. Gary Gray)
Il figlio di Saul (2015, di László Nemes)

venerdì 19 febbraio 2016

Il diritto d'opinione ha L'ultima parola

L'ultima parola – Dalton Trumbo (Bryan Cranston)
Potranno anche imprigionarlo per le sue opinioni e non farlo più scrivere ma alla fine sarà Dalton Trumbo ad avere L'ultima parola (2015, di Jay Roach).

di Luca Ferrari

“È stato un periodo di paura dove nessuno è stato risparmiato”. Parla così Dalton Trumbo a proposito della caccia alle streghe del Maccartismo. Lui che ha dovuto abbandonare la sua famiglia per trasferirsi in gattabuia semplicemente perché aveva delle banalissime opinioni. Trumbo parlava del Maccartismo ma avrebbe benissimo potuto essere un anti-protagonista di altre epoche, inclusa la nostra. Basato sulla biografia "Trumbo" di Bruce Alexander Cook, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (di Jay Roach).

Dalton Trumbo (Bryan Cranston) è uno sceneggiatore di successo. I suoi film vengono visti da milioni di persone. Qualcosa però si sta per complicare. Sono i primi anni del dopoguerra e dalla minaccia del Nazi-Fascismo, cosa che spinse molti americani a simpatizzare per il Partito Comunista (Trumbo e tanti colleghi inclusi), si passa a un periodo buio di sospetto verso i filo-rossi (ora diventati nemici dopo lo “scoppio” della Guerra Fredda) che presto comincerà a far male sul serio con la creazione di famigerate liste nere.

Trumbo è un uomo più che benestante. Vive in una bellissima casa fuori città con tanto di laghetto e cavalli. È un uomo però che parla di diritti dei lavoratori. È un uomo che si espone in prima linea sostenendo lo sciopero dei lavoratori del cinema mettendosi contro i grossi produttori cinematografici. E così, quando inizia la caccia al comunista, inevitabile che lui e altri colleghi, proprio perché visi noti, vengano subito messi al centro della vicenda.

Trumbo e gli altri 10 di Hollywood vengono obbligati a comparire in Giudizio. Il processo è una farsa. Aizzati dalla spietata Hedda Hopper (Helen Mirren), un tempo attrice e ora direttrice di una seguitissima rivista pattinata, li vogliono tutti colpevoli. In prima linea contro di loro, anche il possente John Wayne (David James Elliott). Un uomo che parla di valori americani da difendere, ma che nel corso del secondo conflitto mondiale era sul set a girare mentre il “rosso” Trumbo e altri presunti comunisti-americani, oggi minaccia per la patria, sul campo a difendere la suddetta.

"Ma chi è un comunista?" chiede la giovane figlia Niki (Madisol Wolfe), quando è ancora una bambina. Il saggio Dalton allora le dice: se tu hai il tuo piatto preferito per pranzo e vedi una tua compagna senza niente, cosa fai? "Le do un po’ del mio piatto", risponde lei. Sei sicura? Non te la mangi tutta tu? "No, insiste lei". Ecco, allora sei anche tu una comunista. Dolce spiegazione. Spiegazione semplificata di un concetto che va ben oltre il comunismo. Un modo di intendere la vita (anche) come un aiutarsi l'un l'altro.

Trumbo finirà inesorabile in galera e quando arriverà il momento del reintegro in società, chi mai gli affiderà una sceneggiatura da scrivere? Nessuno, è ovvio. Agli occhi dei suoi concittadini ormai è un traditore venduto a Mosca. Per tirare a campare la soluzione non è che una: scrivere sotto falso nome e così mantenere la famiglia. Ma non è solo il lavoro a risentirne. Trattandosi di una caccia alle streghe, Trumbo viene visto come un appestato e pertanto si merita il peggio come presto scopriranno anche i suoi stessi figli e la dolce moglie Cleo (Diane Lane).

Hollywood è una giungla, ma ciò significa che si può anche trovare chi non frega nulla dei propri interessi politici. Ed è così che Trumbo inizia scrivere a un ritmo frenetico per i fratelli King, Hymie (Stephen Root) e soprattutto il corpulento Frank (John Goodman). Quando poi il divo Kirk Douglas (Dean O'Gorman) gli chiederà espressamente di riscrivere una “epica” sceneggiatura, esponendosi in prima linea per lui, così come farà anche il celebre regista Otto Preminger (Christian Berkel), qualcosa nella macchina della censura e dell'isterismo inizierà a incrinarsi.

A differenza dei troppi idealisti che si accontentano di fare una battaglia convinti di poter cambiare il mondo con le buone azioni, Trumbo si definisce un ricco radicale scaltro come Satana. Combatte una battaglia comune ma la fa in primo luogo per se stesso e senza velleità di martirio. Vuole riprendersi ciò che è suo. Non gli basta vincere premi sotto mentite spoglie. In quella fatidica notte degli Oscar lui vuole essere protagonista perché di male né di sbagliato non ha fatto proprio nulla.

Un film importante L'ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo. Un film dove si parla di “reato d’opinione” e su cui in pochi hanno voglia di far sapere cosa ne pensano davvero. Al timone della pellicola c’è un signore che non si può certo dire sia in prima linea sul fronte del cinema impegnato (Austin Powers, Ti presento i miei, A cena con un cretino). Il suo nome è Jay Roach. A dirla tutta però, nel precedente Candidato a sorpresa (2012), già faceva la sua comparsa una critica non poco velata a quella politica americana più becera e strangolata dalle donazioni dollaresche delle avide corporation.

Strana nazione gli Stati Uniti. Tanto solerti a scendere in campo (armi incluse) e denunciare violazioni dei diritti umani ovunque nel mondo, e allo stesso tempo eccelsa nel minimizzare ciò che gli successe in casa. Dallo sterminio dei veri nativi americani alla segregazione razziale passando appunto per il Maccartismo. Un periodo nerissimo che come riporta a fine pellicola anche il film, portò alla distruzione di centinaia di migliaia di famiglie in un clima da autentico Medioevo. Numerosissimi furono anche i suicidi accertati.

Dulton Trumbo è stato uno dei tanti esiliati di Hollywood. A differenza di altri però, dopo essere finito al tappeto, si è rialzato e ha vinto il match della vita. Un uomo cui tutta l’industria cinematografica forse gli dovrebbe qualcosa, e invece a giudicare dalle nomination & riconoscimenti fin qua non ricevuti, si direbbe l’esatto opposto. Come a dire, “grazie ma la gloria è di chi si attiene al sistema e non certo a chi la pensa fuori dal gregge”.

Protagonista indiscusso del film, Bryan Cranston, un attore che in molti conoscono per il suo Walter White nella serie televisiva cult Breaking Bad. L’attore californiano classe '56 non è certo un neofita. Capo di Ben Affleck in Argo (2012), sindaco adultero in Rock of Ages (2012) senza dimenticare le tante comparsate sul piccolo schermo; di queste, epica la sua “odiosa” interpretazione in How I Met Your Mother dove per alcune puntate fu il celebre architetto Hammond Druthers, capace di progettare un grattacielo a forma di pene.

Co-protagonisti di altissimo lignaggio, la premio Oscar Helen Mirren (malefica e odiosa) e John Goodman. Se della prima c’è ben poco da aggiungere, il secondo, già insieme a Cranston nel sopracitato Argo, continua ad aggiungere performance eclettiche alla sua lunghissima carriera. Per la serie “c’è chi aspetta un meritato Oscar da più un tempo di Leonardo DiCaprio”, constatare che il sig. Goodman (Il grande Lebowski, A proposito di Davis, Monuments Men) sia ancora a dieta stretta di Academy, è una vera e propria vergogna.

Chi non l’avesse ancora fatto, si segni sul taccuino il nome di Elle Fanning (al cinema questo mese anche nel maturo About Ray, 2015, di Gaby Dellal), qui nelle vesti della figlia cresciuta Niki. È una predestinata. Potenzialità da musa di cinema d’autore e allo stesso tempo un viso “vendibile” (La mia vita è uno zoo, Super 8, Maleficent). Sorriso dolce e bellezza raffinata ancora da esplodere (il prossimo 9 aprile compirà 18 anni). A differenza della già ridimensionata sorella Dakota, lascerà il segno nella Settima Arte.

Da oggi sono certo in molti (spero) si ricorderanno di Dalton Trumbo (1905-1976). Eppure, a guardare i film di cui ha curato la sceneggiatura, magari ci si sorprenderebbe visto che alcuni sono titoli famosissimi: da Ho sposato una strega (1942) a La più grande corrida (1956), passando per Spartacus (1960), Exodus (1960) e Papillon (1973). Il suo unico film da regista è E Johnny prese il fucile, di cui numerosi spezzoni sono stai utilizzati dalla celeberrima metal-band Metallica per il videoclip della loro canzone One.

Mi è capitato raramente di essere così emozionato all'idea di vedere un film. Lo sono stato per L'ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (2015, di Jay Roach). Sarà perché mi ritengo più scrittore che giornalista (il mio excursus parla chiaro). Sarà perché in questi tempi contemporanei ancora molto travagliati nuovi Maccartismi sono pronti a mietere nuove vittime. E io come tanti, potrei venirne risucchiato. E io come pochi, avrei il dovere di rispondere e combattere.

Guarda il trailer di L'ultima parola
L'ultima parola – Hedda Hopper (Helen Mirren) e Dalton Trumbo (Bryan Cranston)
L'ultima parola – Kirk Douglas (Dean O'Gorman)

martedì 16 febbraio 2016

BAFTA 2016, Londywood Calling

Bafta 2016 - i vincintori Alejand G. Inarritu e Leonardo DiCaprio © BAFTA
Ma siamo a Londra o dalle parti di Hollywood? Scorri i nomi dei vincitori della 69° edizione dei premi BAFTA 2016 ed è un tour dello scontato già visto.

di Luca Ferrari

La British Academy of Film and Television Arts (BAFTA) ha emesso i verdetti. Scontati. Nessuna sorpresa. Nessuna scelta fuori dai binari. Di film importanti da premiare ce n’erano assai: Steve Jobs, Carol, Il caso Spotlight e La grande scommessa. Il grosso dei premi invece l'hanno vinto loro, i soliti. Hanno vinto i gusti del pubblico commerciale come se oggigiorno la conoscenza critica della materia non avesse più alcun peso. Il pubblico chiede, la giuria premia.

Dopo i Golden Globe, l’ex-Titanica coppia Kate Winslet e Leonardo DiCaprio ha fatto il bis ai BAFTA 2016 rispettivamente per Steve Jobs e Revenant - Redivivo, e ora puntano sparati al tris perfetto. Se per DiCaprio trattasi della 5° nomination agli Academy e ancora zero successi, la Winslet è alla settima candidatura con una statuetta già incamerata nel 2009 come Miglior attrice protagonista in The Reader – A voce alta (2009).

Altre doppiette, quella di Brie Larson, il regista messicano di Revenant, Alejandro González Iñárritu e il Maestro Ennio Morricone. Mastica ancora amaro la giovane attrice svedese Alicia Vikander, a dieta stretta di premi nonostante le due nomination esattamente come ai prossimi Globes: per lei nelle due serate di gala, 4 candidature complessive e zero successi. Riuscirà a rompere il digiuno agli Oscar dove concorre solo per lo scettro di Miglior attrice non protagonista in The Danish Girl?

Ancora peggio è andata a Il ponte delle spie e Carol. Accomodatisi alla Royal Opera House di Londra con 9 nomination ciascuno, il film diretto da Steven Spielberg ha vinto in una sola prestigiosa categoria, l'opera diretta da Todd Haynes con protagoniste Cate Blachett e Rooney Mara invece, nessuna. Se questo è il trend, temo che la notte Los Angeles non regalerà alla suddette pellicole grandi soddisfazioni.

Sul fronte dell’animazione Inside Out ha vinto a mani basse. Poca concorrenza (Minions e Shaun, vita da pecora – Il film). Trionferà anche agli Oscar al 100 per cento ma in casa Pixar sanno fare di gran lunga meglio. Ciliegina sulla torta commerciale, il premio come Miglior stella emergente andato al giovane John Boyega, fattosi conoscere al grande pubblico con Star Wars.

Unica consolazione della serata londinese oggi succursale di Hollywood, l'ennesima bocciatura del tanto incensato Mad Max: Fury Road che, a ragione, si prende i premi tecnici ma venendo trombata sul fronte dei riconoscimenti attoriali, di regia, sceneggiatura, etc. Ossia lì dove il suo contribuito era pari allo zero assoluto. Nel dettaglio, tutti i vincitori dei premi BAFTA 2016:

  • Miglior film: Revenant – Redivivo (di Alejandro González Iñárritu)
  • Miglior film britannico: Brooklyn (di John Crowley)
  • Miglior debutto di un regista, sceneggiatore o produttore britannico: Naji Abu Nowar (sceneggiatore, regista) Rupert Lloyd (produttore) – Theeb
  • Miglior film straniero: Storie pazzesche (Relatos salvajes, di Damián Szifron – Argentina)
  • Miglior documentario: Amy (di Asif Kapadia)
  • Miglior film d'animazione: Inside Out
  • Miglior regista: Alejandro González Iñárritu (Revenant – Redivivo)
  • Miglior sceneggiatura non originale: Adam McKay, Charles Randolph (La grande scommessa)
  • Miglior attore protagonista: Leonardo DiCaprio (Revenant – Redivivo)
  • Miglior attrice protagonista: Brie Larson (Room)
  • Miglior attore non protagonista: Mark Rylance (Il ponte delle spie)
  • Miglior attrice non protagonista: Kate Winslet (Steve Jobs)
  • Miglior colonna sonora: Ennio Morricone (The Hateful Eight)
  • Miglior fotografia: Emmanuel Lubezki (Revenant – Redivivo)
  • Miglior montaggio: Margaret Sixel (Mad Max: Fury Road)
  • Miglior scenografia: Colin Gibson e Lisa Thompson (Mad Max: Fury Road)
  • Migliori costumi: Jenny Beavan (Mad Max: Fury Road )
  • Miglior trucco e acconciatura: Morna Ferguson e Lorraine Glynn (Brooklyn)
  • Miglior sonoro: Lon Bender, Chris Duesterdiek, Martin Hernandez, Frank A. Montaño, Jon Taylor, Randy Thom (Revenant – Redivivo)
  • Miglior effetti speciali: Chris Corbould, Roger Guyett, Paul Kavanagh e Neal Scanlan (Star Wars: Il risveglio della Forza)
  • Miglior cortometraggio animato britannico: Edmond
  • Miglior cortometraggio britannico: Elephant
    Miglior stella emergente: John Boyega
Tutti i vincitori della 69° edizione dei BAFTA © BAFTA

lunedì 15 febbraio 2016

I perfetti sconosciuti siamo tutti noi

Perfetti sconosciuti (2016, di Paolo Genovese)
Amici da una vita, fidanzate, mariti. Sappiamo davvero tutto o nei loro smartphone si cela un'altra peccaminosa vita? Perfetti sconosciuti (2016, di Paolo Genovese).

di Luca Ferrari

Come ti sentiresti a mettere il tuo smartphone sul tavolo e far leggere ad amici e dolce metà tutto ciò che arriverà nella serata? Messaggi, mail, chiamate! Nessuna esclusa. È quello che suggerisce Eva (Kasia Smutniak) durante una cena tra gli amici di una vita. Un gioco potenzialmente pericoloso cui alla fine tutti accettano di partecipare. In piena epoca-dipendenza da telefono, app & social network, arriva nei cinema italiani Perfetti sconosciuti (2016, di Paolo Genovese).

Amici di penna, diari segreti e nascosti. Incontri furtivi. Passato e roba vecchia, ma chi se li ricorda più? Oggi per osare non serve nemmeno uscire di casa. Oggi per curare le croniche insoddisfazioni di una vita prematuramente andata avanti con gli anni, ci sono i social network e le infinite possibilità d'interagire con persone che magari non incontreremo mai, ma capaci comunque di regalarci quel brivido la cui stazione del presente ha ormai annunciato un ritardo definitivo.

Padroni di casa, Eva e Luca (Marco Giallini), psicologa e chirurgo plastico. Alla loro tavola sono seduti Cosimo (Edoardo Leo) e Bianca (Alba Rohrwacher), freschi di nozze e in timido tentativo di avere un bambino; Carlotta (Anna Foglietta) e Lele (Valerio Mastandrea), due figli e la madre di lui in casa; Peppe (Giuseppe Battiston), docente precario con la neo-fidanzata assente causa febbre.

È la generazione dei quarantenni, la più penalizzata. Quella nata nel mondo vecchio con i giochi all'aperto, la televisione e il walkman, ma obbligata a tenersi al passo in questo futuro super-veloce. È la generazione che sta sperimentando la solitudine della telefonia mobile. È la generazione che ha meno anticorpi per difendersi dai nuovi virus e crede che l'anonimato di una chat possa regalare felicità.

Una volta le relazioni duravano una vita intera prostrandosi alle rigide convenzioni sociali, oggi proseguono perché non ci si può permettere di ricominciare. Bisogna imparare a lasciarsi, ammette sconsolata Eva. È davvero così? Non c'è più posto per la normalità di una relazione? Forse si, forse no. Non esistono regole, ma esistono ancora i sentimenti e sono sempre e solo quelli in grado di fare la differenza.

Paolo Genovese (La banda dei Babbi Natale, Immaturi, Tutta colpa di Freud) ha riunito sotto un unico tetto un gruppo di gran bravi attori e attrici. Non manca nulla. Risate. Debolezze. Paure. Rinunce. Nel corso del film saranno in molti quelli che troveranno qualche spigolo della propria identità nascosta. Col passare dei minuti ognuno dei protagonisti lascia intravedere ombre del proprio tsunami nascosto, arenatosi nell'idealismo di un effimero eterno ma scambiato per autentica felicità cui (in realtà) nessuno crede più.

Tutti i commensali hanno qualcuno vicino ma nulla è come accade. Differenti i  quattro maschietti. Sublime fascio-coattone ignorante in Noi e la Giulia (2015), Edoardo Leo è ancora un po' il buzzurro del gruppo, alla cui estremità c'è l'amico sinistroide Mastrandrea. Più anima candida e un po' sfigata Battiston. Oltre modo riflessivo Giallini, da standing ovation per saggezza la sua conversazione in viva voce con la figlia adolescente Sofia (Benedetta Porcaroli), alle prese con i dubbi della sua prima volta.

Caratteri diversi anche per le tre donne. Se Anna Foglietta (quasi irriconoscibile rispetto alla sua presenza nel già citato Noi e la Giulia, per di più priva della sua bellissima aspirata toscana) e Kasia Smutniak appaiono decisamente più navigate e combattive, Alba Rohrwacher fa della sua più giovane età un nobile baluardo con cui sostenere le proprie idee e per nulla incline a non aver fiducia nell'happy end. O per lo meno è così all'inizio del “gioco della smartpho-verità”.

L'autore di questo blog-magazine è (purtroppo) alla soglia dei fatidici “anta” e il mondo dei social lo conosce molto bene. Sebbene non sia uno che svenda le propria vita privata, per ragioni di lavoro sono presente su Facebook, Twitter, Google Plus, LinkedIn, Pinterest e Instagram. Ogni canale ha un proprio linguaggio in costante evoluzione ma è facile perdersi. E quando il mondo lì fuori ti delude senza tregua né pietà, la rete sembra ormai diventata l'unica soluzione.

Paolo Genovese racconta una fetta di realtà contemporanea. Non cede a luoghi comuni né a facili miserie emozionali. I suoi interpreti scherzano e si confrontano. Soffrono e litigano. Alcuni pure crescono. È sempre un film però. Dalle parti della vita vera invece, la smarrita generazione X l'hanno trasformata in tanti smidollati young adults. Io non sono più un ragazzino e un grande band della mia epoca disse, “Escape is never the safest place – La fuga non è mai il posto più sicuro (Dissident – Vs, Pearl Jam)”. Ecco, appunto!

Il trailer di Perfetti sconosciuti

Perfetti sconosciuti - Cosimo (Edoardo Leo), Luca (Marco Giallini) ed Eva(Kasia Smutniak)