!-- Codice per accettazione cookie - Inizio -->

venerdì 24 giugno 2016

Io non commento i film, io recensisco forte

"Io non commento i film, io recensisco forte" © Luca Ferrari
Il meglio. I momenti più cinentusiasmanti. Le delusioni. Viaggio nei primi sei mesi del 2016 cinematografico e ricordatevi che io non commento i film, io recensisco forte.

di Luca Ferrari

Il grande cinema di Steve Jobs e La grande scommessa. Le bugie assurde di Where to Invade Next. Il fumo negli occhi di Lo chiamavano Jeeg Robot. I minestroni Marvel con la sola eccezione dei più saporiti (e apocalittici) X-Men. Il grande cinema italiano di Veloce come il vento e La pazza gioia. Sei mesi sono quasi passati dall’inizio dell’anno e visto che cineluk si appresta ad andare in ferie per un paio settimane, vediamo un po' cosa è accaduto in questi primi (quasi) 180 giorni di cinema.


Per vivere la magia del grande schermo e poi scriverne bisogna prima entrare in sala. Di norma sono sempre il primo a prendere posto per accapparrarmi la posizione a me più congeniale. Salvo un'unica (ma eccelsa) incursione in terra mestrina, ormai le mie prime case d'ispirazione sono le tre sale del cinema Rossini e la sala A del collega Giorgione. Un piacere nel piacere. Entrare in sala e più tardi farsi una rilassante passeggiata a Venezia per tornare a casa è quanto di più intenso ci possa essere, mentre il cervello comincia silenzioso a elucubrare la futura recensione.

Uno dei momenti che non potrò mai dimenticare in questi primi sei mesi è stata la "lotta" per vedersi Steve Jobs (di Danny Boyle). Per una serie di circostanze sfavorevoli mi sono ritrovato all’ultimo spettacolo dell’ultimo giorno di proiezione. L’ennesimo mal di denti mi aveva imposto la somministrazione di un potente antidolorifico che per l’ora di cena mi stava creando non pochi bruciori di stomaco. Eppure non mi sono fermato. 

Volevo vedere Micheal Fassbender nei panni di Steven "Apple", insieme a Kate Winslet, Seth Rogen e Jeff Daniels. Li volevo vedere sotto una unica telecamera. Volevo recensire quella pellicola. Il risultato? Un film di primissima categoria con sontuose interpretazioni e una sceneggiatura degna di questo nome.

Dopo anni di oblio, per la mia professione è stato un cine-periodo ricco di soddisfazioni. Oltre al pluripremiato Il caso Spotlight (2015, di Tom McCharty), quest’anno ho potuto ammirare anche Truth (di James Vanderbilt con Robert Redford e Cate Blanchett), senza dimenticarsi di La vera storia di Dalton Trumbo (di Jay Roach con Bryan Cranston ed Helen Mirren), film sulla libertà di “sceneggiatura” nell’epoca buia del Maccartismo americano.

Uno dei cinemomenti più intensi di questa prima parte del 2016 è stato scrivere la recensione dell’ultimo film di Paolo Virzì, La pazza gioia, con protagoniste Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi. Con il grosso del pezzo già scritto, mi sono concesso un piacere che mai avevo sperimentato prima. Preso il laptop, mi sono fiondato nel locale che in assoluto preferisco a Venezia, la Birreria Zanon. Lì, dopo essermi preso uno dei loro gustosissimi crostini col prosciutto crudo, ho ultimato il lavoro, chiudendo il tutto con quattro passi tra fondamenta e ghetto con cicca in bocca.

Un altro cine-momento davvero speciale è stato vissuto in occasione del referendum abrogativo sulle trivelle. Impegnato come scrutatore, nella pausa cena pre-spoglio, invece di tornare a casa mi sono fermato all’Old Wild West in Strada Nuova. Lì, insieme al mio inseparabile Dakota Burger, prima mi sono concesso un’esaustiva lettura di uno degli attori che più apprezzo, John Goodman, quindi ho buttato giù la prima stesura della recensione di Veloce come il vento, film dove il protagonista Stefano Accorsi ha realizzato (al momento) la migliore interpretazione della sua carriera.

Una sola incursione nell’isola europea, e cioè oltre il Ponte della Libertà, come amano dire i feri veneziano. Dei miei primi 30 film vis(su)ti nel 2016, uno unico presso il Multisala Candiani. Un film che non avrei perso per nessuna ragione al mondo. Un film dove Steve Carell e Christian Bale sono diretti dallo stesso regista (Adam McCkay). Un film che ogni persona dovrebbe vedersi almeno una volta la settimana e magari gli verrebbe più voglia di imparare qualcosa e farsi i meno gli affari altrui. Il film in questione è La grande scommessa.

Per un giornalista vedere il proprio lavoro pubblicato è l’apice della professione. Quasi, direi. Secondo solo alla sensazione di aver sistemato l’ultima virgola del proprio pezzo. Oltre alla recensione del film campione d’incassi Quo Vado, con Checco Zalone, sulle pagine del settimanale internazionale L’Italo-Americano ho avuto la soddisfazione di veder pubblicato un mio lungo e critico articolo sulla 60° edizione dei David di Donatello. Premi che hanno visto un’assurda assegnazione di massa al cinema fantasy, ignorando del tutto tematiche sociali.

Un'unica nota negativa di questi primi sei mesi. Dei film che non sono riuscito a vedere e dunque recensire, uno recente in particolare non l’ho proprio digerito. The Neon Demon, snobbato a dir poco dalle sale veneziane e tenuto sette miseri giorni al Multisala Candiani di Mestre. Per una pellicola fresca di presentazione al Festival di Cannes diretta da un regista famoso e di nicchia allo stesso tempo (Nicolas Winding Refn) e con la protagonista, Elle Fanning, futura premio Oscar, mi sarei aspettato un interesse diverso. Oltre tutto la tematica era molto interessante. Davvero inspiegabile davvero la sua assenza in laguna.

Grande schermo ma non solo. In questi primi mesi del 2016 mi sono visceralmente legato al rito della cinecolazione, apprezzata anche dalla direttrice del mensile Ciak, Piera De Tassis, che ha prontamente retwittato una delle mie tante creazioni. Ma più che un rito (che alla fine stanca sempre), la cinecolazione è un piacere. Quando infatti non ho nulla di cartaceo con cui accompagnare la mia colazione, qualcosa mi viene a mancare. Mi gusto il cappuccino proprio di meno. Leggere qualcosa che ancora devo vedere e recensire è il top, ma anche confrontarsi coi colleghi in particolare delle riviste (cartacee) specializzate nel dopo-film è sempre interessante e istruttivo.

Per tutti i miei altri servizi che non ho citato, cineluk è qui che vi aspetta. A presto per altre "forti" recensioni.

Al cinema di Venezia e Mestre a vedere-recensire L'umo che vide l'infinito,
La grande scommessa e il documentario Where to invade Next © Luca Ferrari
Al cinema Rossini di Venezia a vedere e recensire The Nice Guys © Luca Ferrari
Una delle mie ghiotte cinecolazioni con un articolo sul film (poi recensito) Julieta © Luca Ferrari
Al cinema Giorgione e Rossini a vedere e recensire prima La pazza gioia, poi Julieta © Luca Ferrari
Al Rossini a vedere-recensire Veloce come il vento e poi Lo Stato contro Fritz Bauer © Luca Ferrari
All'Old Wild West di Venezia a leggere di John Goodman... e recensire © Luca Ferrari
La direttrice di Ciak, Piera De Tassis, retwitta le mie cinecolazioni © Luca Ferrari

martedì 21 giugno 2016

L'uomo che intuì e dimostrò l'infinito

L’uomo che vide l’infinito – Srinivasa Ramanujan (Dev Patel)
Dalle pure intuizioni matematiche alle dimostrazioni che ne sancirono l’universale validità. Storia del matematico Srinivasa Ramanujan, L'uomo che vide l'infinito (2015, di Matthew Brown).

di Luca Ferrari

Il nuovo linguaggio della matematica contro ogni pregiudizio e freno mentale. Da Madras a Cambridge. Dall'India all'Inghilterra. Srinavasa Ramanujan è un ambizioso venticinquenne con un intelletto fuori dal comune. Dialoga coi numeri. Scrive formule. Nell’allora colonia britannica dei primi del '900 nessuno lo prende sul serio. Quasi nessuno. Basato sulla biografia “L'uomo che vide l'infinito – La vita breve di Srinivasa Ramanujan" (1991, di Robert Kanigel), è uscito sul grande schermo il film omonimo diretto da Matthew Brown. "Se credete nel cambiamento, leggete a vostro pericolo".

Il genio. Il mentore. La forza di non mollare mai. Sono i tre elementi cruciali per inscrivere il proprio il nome nel ristretto elenco dei Grandi della Storia. Srinivasa Ramanujan (Dev Patel), addetto alla contabilità di Sir Francis Spring (Stephen Fry), a Madras, è un genio incompreso della matematica. Nella propria terra natia dove comandano gli uomini di Sua Maestà non c'è posto per il suo talento. Ecco allora la montagna andare da Maometto.

Al Trinity College di Cambridge c’è un docente diverso dagli altri. Ama le idee rivoluzionarie. Non gl’interessa la bandiera o il colore della pelle. Non ha legami di alcun tipo. La sua è una vita dedicata allo studio. Il suo nome è G. H. Hardy (Jeremy Irons). È il 1913 e ha appena ricevuto una strana lettera dall’India con pagine di formule mai viste prima. Lì per lì creduto uno scherzo dall’amico e collega John Littlewotod (Toby Jones), una volta compresa l'effettiva esistenza di questo diamante grezzo, il passo successivo non può che essere l’invitarlo in Inghilterra.

Per il giovane è un inevitabile mondo nuovo (nuovissimo). A dispetto di un entusiasmo dirompente, per arrivare primo sul traguardo è necessario imparare tanti piccoli dettagli del nuovo tracciato. Dalla dieta vegetariana da seguire non senza difficoltà all’inevitabile razzismo cui andrà incontro, specie con lo scoppio del primo conflitto mondiale, fino allo scontro accademico con docenti che non accettano di vedersi scavalcare dall’ultimo arrivato, per di più senza alcun titolo accademico e ancor per di più proveniente dalle colonie.

Hardy è sempre al fianco di Ramanujan ma non saranno sempre rose e fiori. Amore disinteressato per il geniaccio indiano o interesse a tirare un bel montante al corpo docente che spesso lo ha screditato? Un po’ entrambi, e non c’è nulla di male. L’interesse per le sue capacità non tarderà troppo a lasciare spazio a una grande amicizia, e perfino Hardy, vecchio cuore di quercia inglese e allergico ai sentimenti, sentirà di dover stare vicino a questo ragazzo che ha abbandonato la propria casa nel nome della loro amata matematica.

Vita dura quella dei geni anticonformisti. Non esiste epoca dove la rivoluzione del sapere sia stata accolta con travolgente entusiasmo, salvo le solite rare eccezioni. Eppure, a ben pensarci, è davvero un controsenso. Isaac Newton è venerato al Trinty College, eppure quante volte anche lui fu ostacolato nel proprio lavoro? Ramanujan subisce il medesimo trattamento. Il nuovo mette sempre in discussione lo status quo. I titolari del sapere hanno solo il guardaroba differente dai loro ottusi predecessori.

Entri nel mondo de L'uomo che vide l'infinito (2015, di Matthew Brown) ed è inevitabile pensare a pellicole analoghe. Due su tutte, A Beautiful Mind (2001, di Ron Howard), film vincitore di quattro premio Oscar, e il più recente The Imitation Game (2014, di Morten Tyldun), rispettivamente sulle figure di John Nash e Alan Turing. Ma se Nash e Ramanujan si “sono limitati” a lasciare un’impronta indelebile nella matematica applicata, il timido Alan diede un contributo alla vittoria degli Alleati II conflitto mondiale che nessun’arma degli Alleati riuscì mai lontanamente a eguagliare per effetto contro gli odiati nazisti.

I quaderni di Ramanujan sono scritti quasi sotto dettatura (divina?) esattamente come ci mostrava Milos Forman nell'indimenticabile Amadeus (1984) sul geniale musicista austriaco Mozart. Ma prima delle formule L'uomo che vide l'infinito (2015, di Matthew Brown) è soprattutto un viaggio/percorso umano dove ha un ruolo fondamentale il dolore della lontananza. In un’epoca dove ci si poteva al massimo scrivere lettere (di attesa), Srinavasa ha lasciato nel subcontinente la giovane moglie Janaki (Devika Bhise) e l’invadente madre. Non senza difficoltà e qualche evitabile incomprensione, i due portano avanti il loro matrimonio con amore vero e sincero.

Sontuosa l’interpretazione di Jeremy Irons (Mission, Io ballo da sola, Il mercante di Venezia), passato nel giro di pochi mesi dall’inedita veste (per lui) di Alfred il maggiordomo al fianco di Ben “Batman” Affleck ai sentimenti sofferti di La corrispondenza per Giuseppe Tornatore. L'attore britannico calza alla perfezione le  vesti di un dotto inglese per nulla immobilizzato in etichette. 

Notevole anche il suo alterego (buono), il collega d'oltremanica Toby Jones, viso noto sul grande schermo e co-protagonista di moltissime pellicole tra cui Neverland - Un sogno per la vita, Frost/Nixon - Il duello e Captain America- il primo vendicatore. Meno entusiasta di Hardy sulle doti del neo-arrivato ma non meno prodigo di aiuti e appoggio morale. I due docenti sembrano gli Sherlock Holmes e Watson dell’indagine matematica anche se con sfumature ed ego di entrambi i personaggi creati dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle.

Intensa anche le prova del giovane Dev Patel, londinese di origini indiane classe '90. Se fin’ora ci aveva abituato a ruoli più leggiadri, inclusi quelli (doppi) del buffo titolare del Marigold Hotel, al fianco di un altro monumento del cinema d’Oltremanica (Maggy Smith), in L'uomo che vide l’infinito si spoglia dell’imprevedibilità giovanile prendendo in mano la volontà di un uomo deciso e convinto delle sue capacità. È studioso e concentrato. È una mosca bianca nella valle dei pregiudizi ma è sicuro che alla fine il mondo comprenderà l’importanza del suo lavoro.

Nel marasma dei social network dove chiunque vuole sempre insegnarti a vivere e condividere scontate perle di saggezza nel nome di chissà quale missione evoluzionistica, di recente mi è balzata sotto gli occhi una frase attribuita a Steve Jobs (non ho trovato gran riscontri in rete, ndr). La tipica frase con cui tutti si riempiono la bocca ma poi messi di fronte alla realtà che questa esprime, al 99,99 per cento farebbero un bel balzo all’indietro. Queste le parole: Non ha senso assumere persone brillanti e poi dire cosa devono fare. Noi assumiamo persone brillanti così loro ci dicono cosa fare.

Nel Bel paese (e non solo) i potenti di qualsiasi ambito sono disposti anche a guadagnare meno (denaro o prestigio che sia) pur di non vedere il proprio nome oscurato da persone più capaci. Invece, come sosteneva il buon Hardy “Un cambiamento è una magnificenza. Noi esploriamo l’infinito alla ricerca della perfezione”. Ramanujan sentiva davvero di avere qualcosa di speciale da condividere col mondo intero. Con la giusta guida è passato dall'intuizione purissima alla dimostrazione accademica. Così ha dato il suo contributo a un mondo diverso. La sua vita stessa è la prova immortale che si può e deve cambiare.

Il trailer de L'uomo che vide l'infinito

L’uomo che vide l’infinito – Ramanujan (Dev Patel) a confronto con il prof. Littlewood (Toby Jones)
L’uomo che vide l’infinito – il prof. G. H. Hardy (Jeremy Irons)

venerdì 17 giugno 2016

I mental coach Don Camillo e Peppone

Don Camillo - l'allenatore Peppone (Gino Cervi) prepara i suoi ragazzi
Non c'è partita di calcio che tenga. Che si tratti di un impegno della Nazionale o una sfida di Champions League, per motivare i giocatori a dovere ci sono solo Peppone e Don Camillo.

di Luca Ferrari

Tattica pre-partita? Ma per carità! Lavoro psicologico sulle proprie capacità? Lo facciano pure gli altri! Letture appropriate e illuminanti come "L'arte della guerra"? Ma dove siamo, in trincea?!? Andiamo, andiamo. Qui ci vuole decisione e fermezza. Niente giri di parole. Pelo sullo stomaco e un innato desiderio politically scorrect di fare a pezzi il proprio avversario. Qui ci vogliono due autentici motivatori. Due personaggi che si mangerebbero a colazione i tanti fallaci mental coach del terzo millennio. Si, proprio loro. Gli unici e soli Peppone Don Camillo.

Il calcio sul grande schermo non ha mai davvero lasciato il segno come altre discipline sportive. Salvo qualche rara eccezione come il recente e bellissimo Il maledetto United (2009, di Tom Hooper) e lo storico Fuga per la vittoria (1981, di John Huston), la maggioranza delle pellicole realizzate sono piuttosto modeste. Nel Bel paese al contrario ancora impazziscono per commedie come L'allenatore nel pallone con protagonista Lino Banfi o peggio le miserevoli partite tra scapoli e ammogliati nelle vicende del ragioniere Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio).

Quando la sfera rotola nel gps di cineluk invece, uno dei primi nomi a balzare alla mente è la brillante commedia anglo-hindu Bend it like Beckham (2002, di Gurinder Chadha). Le fondamenta però sono di tutt'altro spessore e soprattutto epoca. Se si parla di calcio sul grande schermo ho in mente solo due  uomini e un unico grande film, Don Camillo (1952, di Julien Duvivier), liberamente ispirato ai personaggi creati da Giovannino Guareschi. Il primo di cinque film (più un sesto mai ultimato causa scomparsa di uno dei protagonisti) che li consacrerà nel mito della settima arte italiana ed estera.

Giugno 1946. Nell'estate del Dopoguerra italiano il piccolo paese agricolo di Brescello (Re), nella Bassa emiliana, vede due fronti politici contrapposti. Da una parte c'è il sindaco comunista Giuseppe Bottazzi (Gino Cervi) detto Peppone che ha la maggioranza della popolazione dalla sua parte. Sponda opposta, il prete reazionario Don Camillo (Fernandel), un uomo di Chiesa che non si tira indietro se c'è da menare le mani.

Don Camillo e Peppone se le danno senza colpo ferire. Sono però amici, ma questo non deve essere troppo sbandierato né condiviso (alla faccia dei futuri social network, ndr). Hanno conosciuto insieme l'amarezza della guerra e anche se ognuno è esponente di una specifica ideologia, entrambi alla fine danno ascolto alla propria coscienza, ed è questo a renderli due esseri umani prima ancora che un uomo politico e un ministro clericale.

Così, mentre in città fervono i preparativi per la costruzione della “rossa” Casa del Popolo e la “bianca” Città Giardino, il parroco ha la bella idea di voler inaugurare subito il campo da calcio con una partita tra Diavoli e Angeli. Dopo aver fatto visita all'arbitro l'uno all'insaputa dell'altro, entrambi gli allenatori sono certi di poter vincere. La partita farà il suo corso ma ciò che davvero importa in questa sede sono gli attimi prima dell'inizio della sfida. Un momento di “placide espressioni” dei due mental coach Don Camillo e Peppone da prendere a imperituro modello.

Peppone è paonazzo di rabbia. Sembra un vulcano sul punto di esplodere. Il suo giocatore di punta, Mariolino della Bruciata (Franco Interlenghi), è in ritardo. Quando finalmente arriva, viene letteralmente scaraventato in riga dall'energico sindaco oggi in veste di allenatore. Le sue parole incarnano al meglio il filo tagliente di una falce e il fuoco impetuoso battuto dal martello. Don Camillo al contrario è più pacato. Non strilla ma il suo messaggio arriva comunque forte e chiaro, tale da intimidire (non poco) i propri giocatori.

Finalmente le porte degli spogliatoi si aprono. I giocatori escono. Inizia la partita.


Don Camillo - L'arringa motivazionale di Peppone

Don Camillo - Peppone (Gino Cervi) in veste di mental coach prima della partita
Don Camillo - Peppone (Gino Cervi) è un vulcano. Tagliente come la falce, pesante come il martello
Don Camillo - il parroco  (Fernandel) sprona "gentilmente" la sua squadra...
Don Camillo - il parroco  (Fernandel) li avvisa che in caso di sconfitta...
Don Camillo - il parroco  (Fernandel) è stato chiaro!

mercoledì 15 giugno 2016

Philadelphia, sono Orlando sono gay

Philadelphia - Andrew Beckett (Tom Hanks) e l'avvocato Joe Miller (Denzel Washington)
A quasi 25 anni dal film Philadelphia, la parola gay fa ancora schifo e paura. A Orlando hanno ammazzato cinquanta omosessuali e in troppi sono rimasti in silenzio.

di Luca Ferrari

Non è cambiato nulla, anzi peggio. Ai tempi del drammatico Philadelphia (1993 di, Jonathan Demme) c'era la speranza che il mondo potesse svoltare. Progredire. Crescere. Nel 2016 gli omosessuali sono ancora froci. Nel 2016 i gay fanno ancora schifo e se qualcuno li ammazza, com'è successo domenica 13 giugno scorso a Orlando, Florida, chi se ne frega. C'è qualche pervertito in meno nel mondo. Oggi, nel 2016, gli omosessuali sono ancora troppo soli al di fuori dell'aula giudiziaria di Philadelphia.

Ad Auschwitz ci si ricorda solo degli ebrei, ma non degli omosessuali. Sterminati a centinaia di migliaia. La diffidenza che ancora oggi serpeggia verso  queste persone da molti più uomini e donne di quanto si creda è un insulto ai basilari diritti umani. Politica. Religione. Morale. Convenienza. Ignoranza. Tutto confluisce in un rifiuto di due uomini o due donne che vogliono stare insieme. Un giorno, un mese o la vita intera. Esattamente come gli eterosessuali.

Per le vittime di Parigi e Bruxelles i social network si sono riempiti di commiati, per la strage di Orlando molto e tristemente meno. Perché? Che cos'è che alla gente proprio non piace degli omosessuali? Hanno anche loro una mamma e un papà che gli vogliono bene. Anche loro hanno degli amici. Anche loro hanno paura e sorridono quando sono felici. Anche loro sono tesi quando vanno a un colloquio di lavoro. Anche loro vanno al cinema e vogliono sentirsi amati.

Cos'è, è l'atto sessuale tra due esseri dello stesso sesso che scandalizza e manda al manicomio facendo imbracciare l'arma del disprezzo, del rifiuto e come nella città americana, della violenza più assassina? Personalmente mi impressiona di più vedere guerre ignorate con innocenti morti ammazzati, ma è evidente che il sangue versato sconvolga la massa meno di una relazione omosessuale.

Il cinema ha fatto e sta facendo la sua parte, provando a sensibilizzare. Oltre al già citato Philadelphia, non si può certo dire che in tempi recenti la tematica gay sia rimasta nel cassetto. Solo negli ultimi tre anni sono usciti film importanti tra cui Carol (con Cate Blanchett e Rooney Mara), Freeheld (con Julianne Moore), The Imitation Game (con Benedict Cumberbatch e Keira Knightley), Pride (con Bill Nighy) e Dallas Buyers Club, quest'ultimo premio Oscar per il Migliore attore protagonista (Matthew McConaughey) e non protagonista (Jared Leto).

Il cinema può fare molto ma non è e non sarà mai in grado di sopperire alle carenze culturali di una nazione. In Italia ci fu il tempo in cui nei locali c'erano affissi i cartelli con l'inibizione ai meridionali (terroni). Adesso ci fa ridere. È auspicabile che la normalità un giorno avrà la meglio anche sul fronte omosessuale? E ora mi chiedo, quanta della gente che venera Steve Jobs si è mai preso la briga di approfondire la conoscenza di Alan Turing?

Nel recente (grandioso) biopic diretto da Danny Boyle su "Mr Apple", in occasione della trionfale presentazione dell'iMac, Jobs (Michael Fassbender) rende omaggio a Turing, omosessuale senza il cui genio a quest'ora marceremmo per la feccia nazista. Ma come per la violenza sulle donne, non possono essere solo le vittime a dover alzare la testa e scuotere il mondo. Senza l'aiuto degli eterosessuali e dei maschi per il taciuto e ridimensionato problema in rosa, non se ne uscirà mai. Mai.

“Questa causa non è solo sull'AIDS” arringava l'avvocato Joe Miller (Denzel Washington) nel toccante Philadelphia, “Quindi cominciamo a parlare dei veri problemi di questo processo. L'odio della gente. La ripugnanza. La nostra paura degli omosessuali. E di come questo clima di odio e paura abbia portato all'ingiusto licenziamento di questo omosessuale in particolare. Il mio cliente Andrew Beckett (Tom Hanks)”.

Era il 1993. Il computer portatile e i cellulari erano oggetti per pochi eletti. Tutto era ancora un po' rudimentale. Si scrivevano lettere a mano e si mandavano le cartoline. C'era la sensazione che qualcosa potesse progredire. Adesso possiamo conversare in tempo reale col mondo intero ma la comunicazione vera, quella è un'altra cosa. Se sono stato francese, belga, siriano, yemenita o qualunque altra vittima, perché non posso anche essere omosessuale? Sono Orlando. Sono gay. Qualcosa in contrario?

Pride (di Matthew Warchus) - Marcia per i diritti gay
Dallas Buyers Club - il redento Ron (Matthew McConaughey)
obbliga con le buone maniere a salutare il suo amico gay Reyon (Jared Leto)

Freeheld - Laurel (Julianne Moore) e Stacee (Ellen Page)

martedì 14 giugno 2016

Julieta, le parole che sto scrivendo

Julieta - Julieta (Emma Suarez) scrive
I colori la memoria annaspano tra carezze e legami tempestosi. Occorre fare chiarezza dentro di sé. Julieta (2016, di Pedro Almodovar) prende la penna e si racconta.

di Luca Ferrari

La vita è trascorsa tra attimi, passioni e dolori. Julieta (Emma Suarez) è una donna matura ma il passato è ancora troppo invadente. È più forte di lei. C’è qualcosa da lasciar emergere. C’è qualcuno da mettere a fuoco. C’è qualcosa che lei stessa deve avere il coraggio di guardare da dentro il proprio volto. Julieta prende carta e penna. Comincia a scrivere una lettera. La carta s’impregna di memoria. Il foglio diventa il fedele ascoltatore e unico testimone dell’esistenza di Julieta (2016, di Pedro Almodvar).

Una famiglia come tante. Julieta (Adriana Ugarte) e Xoan (Daniel Grao) si sono incontrati per caso. Dalla loro passione e amore è nata Antía (Priscilla Delgado). Vivono nella placida cittadina portoghese di Radas. Lui è un pescatore. Lei un’insegnante. Mare come metafora perfetta dell’esistenza. Placida. Serena. Violenta. Fragorosa. Visibile e segreta. Sono uniti. Insieme a loro c’è la fedelissima e un po’ troppo invadente governante Marian (Rossy de Palma).

Con l’arrivo dell’adolescenza e un imprevisto lutto mentre è in campeggio dove conosce la coetanea Beatriz (Sara Jimènez), la vita di Antia inizia a mutare. L’inevitabile scontro generazionale con gli adulti esce dai blocchi ma senza il clamore di scenate o i flash della rabbia. Le parole non dette lievitano improvvise. Un turbine silenzioso in cui viene coinvolta anche l’amica dei genitori, Ava (Imma Questa). Tutto questo Julieta adesso lo sta scrivendo a qualcuno che non c’è più. È una persona fisica. È la sua anima ferita.

Prima di mettere su famiglia Julieta cavalcava la vita con quella leggerezza tipica di un’età ancora speranzosa sul futuro. Il tempo poi passa con i suoi strali di sorrisi e sofferenze. Nessuno potrebbe mai immaginare che gettare una torta di compleanno nel cestino potrà diventare una tragicomica tradizione. Le cose succedevano senza che io vi prendessi parte, ammette sconsolata la protagonista.

Molti anni dopo la vita di Julieta è profondamente cambiata. È ferma. Pronta a mettersi il passato alle spalle, qualcosa la trattiene ancora nella mente come la praticità di un appartamento. Una vita. Una città. Scrivere non è certo la cura di tutti i mali ma vedere ciò che ci tormenta lì davanti, magari con l’idea di leggerlo o spedirlo ad altri, può essere quella molla in grado di mutare un’affannata corsa senza meta in un declivio coperto di fragole e cardi.

Julieta inizia a rivivere l’intera sua esistenza cercando di capire. Torna in quegli stessi luoghi come se volesse fare un salto temporale e così poter rivivere momenti più spensierati cambiando le cose, ma così non succede. Mai. Tutt’al più, nella migliore delle ipotesi, si potrà avere la fortuna di rincontrare una persona che saprà regalarci un abbraccio, e magari una speranza. O una fondamentale verità ignorata.

Ispirato dai tre racconti Fatalità, Fra poco e Silenzio, inclusi nella raccolta In fuga (2004, di
Alice Munro), è sbarcato sul grande schermo Julieta (2016, di Pedro Almodovar), film presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes. Pedro abbandona l’introspezione più spietata prediligendo tavolozza e pennello. Scenografia. Inquadrature. Tocca alla sensibilità e il proprio vissuto decidere da che parte soffierà la storia.

La predilezione di Almodovar per il mondo femminile è evidente, e anche in questo lungometraggio sono loro al centro della scena. I colori incantano, a risentirne però è una certa linearità. Difficile credere che un figlio non riesca neanche a immaginare il dolore di un genitore all’idea di perderlo. Pedro si prende una pausa dal suo essere Almodovar. La sua anima attraversata da qualche puntino di sospensione di troppo indugia sul panorama e i larghi quadratini del quaderno s’impregnano di dolorosa e sconsolata dolcezza.

Julieta è in viaggio su di una barca a remi con poche coordinate. Passa da un laghetto di montagna all’oceano in un baleno. Il tempo non fa giustizia di nessun torto. Nessun cadavere del nostro ingiusto passato renderà meno amari certi vissuti se noi per primi non sapremo alzarci e trovare una nuova strada, facendo del domani quel tempo che non avremmo mai pensato di saper e poter avere. Ed è esattamente ciò sui cui sta riflettendo (e fa riflettere) Julieta (2016, di Pedro Almodovar).

Il trailer di Julieta

Julieta - Antìa (Blanca Parés) e la madre Julieta (Emma Suarez)

mercoledì 8 giugno 2016

The Nice Guys ci sanno fare

The Nice Guys – Holland March (Ryan Gosling) e Jackson Healy (Russell Crowe)
Sballo. Giochi di potere. È la Los Angeles degli anni ’70. Per fortuna che nella città degli angeli c’è ancora qualche bravo ragazzo. The Nice Guys (2016, di Shane Black).

di Luca Ferrari

Uno è un detective dai modi rudi, capace di menare le mani anche per pochi dollari e senza nessuna intenzione di prendersi un distintivo. L’altro è un investigatore privato, vedovo, con figlia adolescentee il vizio di alzare il gomito svuotando un pacchetto di cicche dopo l’altro. Insieme, dopo un “leggero” diverbio iniziale, seguiranno la stessa pista formando un improbabile ma deciso team di giustizia. Dopo tutto sono proprio dei bravi ragazzi. The Nice Guys (2016, di Shane Black) sanno il fatto loro.

Amelia Kutner (Margaret Qualley) è in fuga. Da una, due, più persone. Molti la cercano. Alcuni vorrebbero proteggerla. Altri eliminarla. È così che l’investigatore privato Holland March (Ryan Gosling) fa la non troppo felice conoscenza del rude detective Jackson Healy (Russell Crowe). Il caso e un qualche sbilenco senso di giustizia li spingono a unire le forze, non senza rischi, anzi. Jackson usa i pugni. Holland una disincantata astuzia. Lì nel mezzo, sempre pronta a cacciarsi più o meno nei guai per aiutare il padre, la teenager Holly (Angourie Rice).

Colpita dalla loro tenacia e intraprendenza, la potente
Judith Kutner (Kim Basinger), del Dipartimento di Giustizia americano, convoca Healy e March per metterli al corrente della situazione, ignorando però che dietro l'aria alticcia e stralunata dei due personaggi, si celi un acume non indifferente. Lei e il suo valente braccio destro Tally (Yaya DaCosta) dovranno così rivedere qualcosa del piano per sistemare la faccenda.

Presentato
fuori concorso in anteprima al Festival di Cannes 2016, The Nice Guys non si fa mancare niente. Action, sangue e risate. C’era molta curiosità nel vedere insieme Ryan Gosling (Crazy Stupid Love, Le idi di marzo, La grande scommessa) e Russell Crowe (Un'ottima annata, State of Play, Padri e figlie), per nulla rodati in ruoli così duro-scanzonati. Il film miscela senza sbavature commedia, gangster e quell’azione senza elucubrazioni psicologiche, ormai noiosamente onnipresenti. Ecco dunque servita una ruvida comedy poliziesca.

C’è però un terzo tassello molto più che comprimario. Inaspettato. Se la presenza di Kim Basinger appare un chiaro tributo a L.A. Confidential, film (1997, di Curtis Hanson) che non solo fece vincere il solo e unico Oscar come Attrice non protagonista all’ex-modella ma contribuì a lanciare definitivamente il futuro Gladiatore, a svettare dalle retrovie è la giovane Angourie Rice. È spavalda ma allo stesso tempo non teme di mostrare paura quando la situazione rischia di precipitare. Manda a quel paese il padre, è la voce della coscienza di Jackson.

Come detto, le risate scorrono alla stregua dei cazzotti. Se il killer John Boy (Matt Bomer) non lascia più di tanto il segno, è a dir poco memorabile il diverbio tra il Jackson e il cattivo ribattezzato Faccia Blu (Beau Knap). Se del braccio rotto a Holland poi già si sapeva dal trailer, la scena cult tutta da gustare è il suddetto investigatore in un bagno pubblico con pantaloni e boxer calati. Coprendosi le parti basse con una rivista, intima a Healy, fino a quel momento non troppo amichevole, di non muoversi né guardare, facendolo però voltare verso uno specchio.

In Italia come negli USA il pubblico conosce i registi e molto meno gli sceneggiatori. Shane Black si è calato in entrambi i ruoli. Se The Nice Guys è appena la sua terza prova dietro la telecamera dopo il divertente Kiss Kiss Bang Bang (2005) e il meno riuscito blockbuster Iron Man 3 (2013), la sua professione come “scriba del grande schermo” è di sicuro più prolifica. Tra i suoi lavori più celebri, i primi due capitoli di Arma letale con la coppia Mel Gibson/Danny Glover, L'ultimo boy scout (1991, con Bruce Willis) e Last Action Hero (1993, con Arnold Schwarzenegger).

Chi sono Holland March e Jackson Healy? Due uomini rassgenati a vivere nelle retrovie della giustizia che si accontentano di sbarcare il lunario accettando qualsisi caso venga loro proposto, inclusa la ricerca di un marito defunto da parte della vedova? Forse non sognano la prima pagina ma non si sentono da meno degli altri. Prendono la vita com'è, e se poi dovesse capitare di dover sistemare le cose, questi The Nice Guys hanno proprio quello che serve.

Entra nel mondo di The Nice Guys
The Nice Guys – Judith Kutner (Kim Basinger)
The Nice Guys – Jackson (Russell Crowe), Holland (Ryan Gosling) e Holly (Angourie Rice)

mercoledì 1 giugno 2016

Lacrime di pazza gioia

La pazza gioia - Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti)
Cicatrici. Letti di rottura. Cuore, consapevolezze e due occhi che ti stringono. Fragili esistenze in lotta per la propria normalità. La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì).

di Luca Ferrari

Tumulto. Silenzio. Dolore. Egoismo. Ricerca. Carezze. Abbandono. Finzione. Calore. Beatrice e Donatella sono compagne di stanza nella comunità terapeutica di Villa Biondi. Non c’è nulla che le accomuni a parte un’anima ferita. C’è chi la nasconde e chi ne è vittima. Le troppe albe sospese del mondo attendono di proseguire il cammino. La vita, quella lì, oggi non è ancora una voluminosa dichiarazione d’indipendenza. Bisogna uscire dagli schemi. Per alcune creature il ricominciare a vivere è qualcosa che non tutti potranno davvero capire. Candidato a 10 Nastri d'argento, Paolo Virzì dirige La pazza gioia (2016).

Nel verde della campagna toscana donne affette da variegati disturbi mentali e/o socialmente pericolose cercano il proprio equilibrio. Voce fuori dal coro, l’invadente e logorroica Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), condannata a più riprese per truffe. Parla sempre lei. È instabile e ancora convinta di essere chissà quale nobildonna. È spocchiosa e saccente. All’arrivo della nuova paziente, Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), subito l’avvicina travolgendola di aneddoti personali.

Beatrice è un fiume in piena. È ossessiva. Spara-giudizi. Si crede meglio degli altri, o comunque di tutti i presenti. Non prende nemmeno in considerazione la lontanissima possibilità di aver sbagliato qualcosa. Donatella al contrario parla quasi a monosillabi. È stranita. Ha cicatrici sulle braccia. Quando c’è da lavorare nell’orto, lo fa in modo egregio a differenza della sua neo-compagna di stanza che da sotto l’ombrellino da gran dama dispensa l’ennesima lezione su cosa e come si fa.

Ed è proprio di ritorno da una queste incursioni agresti che causa il ritardo del pulmino della Villa, Beatrice con sottobraccio Donatella abbandona il gruppo e s’invola verso il primo autobus in arrivo, destinazione capolinea, libertà, pazza gioia o chissà cos’altro ancora. Le due donne iniziano così davvero a conoscersi ma sarebbe riduttivo parlare di mera conoscenza. Se Beatrice è alla ricerca del benessere perduto, Donatella ha un solo e unico grande desiderio: rivedere il proprio figliolo dato in adozione e chissà, magari ricominciare anche a stare bene.

La pazza gioia non è ciò che ci si potrebbe aspettare. Thelma & Louise (1991, di Ridley Scott)? Ragazze interrotte (1999, di James Mangold)? Lasciate perdere, la sola cosa in comune tra La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì) e le due celeberrime pellicole americane è il sesso delle due principali protagoniste. Più similitudini semmai con il “maschile” 4 pazzi in libertà (1989, di Howard Zieff con Michael Keaton e Christopher Lloyd), dove gli instabili fuggiaschi sono decisi “in un modo o nell’altro” a rimettere qualche casella a posto, a cominciare (magari) dalle rispettive feli-identità.

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2016 nella sezione "Quinzaine des Réalisateur", La pazza gioia è molto più complesso e semplice di quanto possa far apparire il trailer. Paolo Virzì (Ovosodo, Tutta la vita davanti, Il capitale umano) non si limita a dirigere due bravissime attrici e a cospargerle di comprimari. Ogni elemento ha il proprio posto. Caotico ed armonioso. È un'orchestra. La vita nella casa di cura. I riti cattolici come parte del lento scandire temporale. Il personale diviso tra gli accoglienti Fiamma Zappa (Valentina Carnelutti), psicologa, e il direttore della struttura Giorgio Lorenzini (Tommaso Ragno), opposti al più rigido Torregiani (Sergio Albelli). La folla della movida toscana. Le dinamiche familiari delle due protagoniste. I dialoghi. I sassi lenitivi scagliati(si) contro-addosso.

Mi capita spesso di prestare attenzione se il film che sto vedendo, e soprattutto che recensirò, sia stato riconosciuto “d’interesse culturale nazionale”. La pazza gioia è stato ritenuto tale, scelta che condivido e si spiega facilmente viste le numerose tematiche umane affrontate. L'esatto contrario del tanto decantato Lo chiamavano Jeeg Robot, follemente pluri-premiato ai David di Donatello 2016, e il cui unico contributo è quello di aver dimostrato quanto l'Italia sia ancora succube dei trend d'oltreoceano spacciandoli poi per chissà quale originalità del Bel paese.

Valeria Bruni Tedeschi (Baciami ancora, Viva la libertà, Il condominio dei cuori infranti) è “meravigliosamente” odiosa nel suo essere sopra le righe. Il ritratto del suo personaggio che ne offre la madre (Marisa Borini) è una folata d’aria fresca nella dirompente e cafonesca afa che impone. Il mondo dice qualcosa ma lei accetta solo ciò che vuol sentire. I suoi lunghi capelli secchi soffocano lo spettatore facendogli desiderare (implorare) che stia un po' zitta.

Micaela Ramazzotti (La prima cosa bella, Il nome del figlio, Ho ucciso Napoleone) al contrario è un cucciolo smarrito. Smagrita. Sfregiata. Ha un cuore che va protetto. Ha un amore che il mondo gli deve riconoscere. Ha un cuore che devono aiutare a far continuare a battere, ma allo stesso tempo "si deve aiutare da sé", come gli dice babbo Floriano (Marco Messeri), un tempo pianista di Gino Paoli e ora oberato dai debiti e costretto a serate revival per sbarcare debolmente il lunario.

Ogni film visto è sempre un’esperienza a se stante. La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì) rappresenta una di quelle rare esperienze capaci di andare oltre il facile entusiasmo recensivo, toccando tasti interiori le cui coperte bruciacchiate talvolta si fa fatica a rimuovere per paura di non sentire più un certo tipo di contatto comunque protettivo. Non c’è corsa liberatoria. Non c’è rivincita degli ultimi in La pazza gioia. C’è un'intensa storia umana.

Ogni film vis(su)to ha la propria finestra nel mondo reale, la propria identificazione. La pazza gioia (2016, di Paolo Virzì) per me resterà sempre le lacrime sincere di una giovane donna nella sala veneziana del cinema Giorgione in una stramba giornata primaverile contesa tra nubi, raggi di sole e improvvisi scrosci di pioggia. Un essere umano carico e allo stesso tempo espressione di ogni sfaccettatura della vita alla cui immortalità delle sue commosse emozioni auguro di vivere oggi e per sempre un po’ di sana (la) pazza gioia.

Una clip de La pazza gioia

La pazza gioia - Donatella (Micaela Ramazzotti) e Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi)
La pazza gioia - Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti)