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mercoledì 29 novembre 2017

Il mio cinema contro il fascismo

La signora dello zoo di Varsavia (2017, di Niki Caro)
ATTENZIONE SPOILER: questa non è una recensione! Ancora un film sul nazi-fascismo? A giudicare dalla sconfortante ignoranza intrisa di allarmante negazionismo, ce n'è ancora da raccontare.

di Luca Ferrari

"Un altro film sul nazismo? Ma no, basta. Sono passati più di 70 anni dalla fine della II Guerra Mondiale e ancora vanno avanti 'sti radical chic, ma sono fuori dal tempo! Ormai è preistoria". Ieri sera ero pronto per andare a vedere al cinema La signora dello zoo di Varsavia (2017, di Niki Caro), storia vera che vide protagonista Antonina Żabińska (Jessica Chastain) e suo marito Jan (Johan Heldenbergh), direttore della struttura nella capitale polacca al tempo dell'invasione tedesca, nascondere ebrei nelle gabbie degli animali. 

Ho avuto un imprevisto all'ultimo e non sono riuscito a vederlo eppure, ispirato anche da una interessante conversazione avuta con la collega E. Nina Rothe, giornalista dell'Huffington Post, da ieri continuo a pensare a questo film domandandomi chi al giorno d'oggi, in un'ipotetica nuova guerra mondiale, saprebbe osare tanto, mettendo a repentaglio davvero la propria esistenza per quella degli altri. Un tempo era facile comandare le masse perché erano all'oscuro di tutto. Oggi che sanno (credono di sapere) ogni cosa, lo è ancora di più. 

Ma forse è lo scenario che sarebbe diverso. Le guerre mondiali non sono più in grado di produrre sconfitti e supremazia. Oggi al contrario assistiamo alle guerre locali, di quartiere. Topi di fogna che latrano nel modo più sguaiato possibile cercando di schiacciare gli ultimi arrivati della colonia, puntandogli ogni cosa contro, ignorando del tutto chi nasconda il veleno mortale tra quei rifiuti per cui si sbranano ogni giorno pur di arraffare.   

Si, è passata qualche decade dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale ma giorno dopo giorno in Italia (e non solo), l'orgoglio nazionalista che non si sa bene perché ormai sia inscindibile da xenofobia, ignoranza e razzismo, sta guadagnando sempre più spazio nei pensieri del prossimo. Nel Bel paese stiamo assistendo a un vero attacco di nostalgia per il Duce Benito Mussolini (ormai i suoi calendari nelle edicole si trovano sempre di più, ndr), un uomo che si è macchiato dei crimini più efferati ma ehi, sapeva mantenere l'ordine quindi va bene.

Impariamo dalla storia, è ora di abbattere il mito di questa frase o meglio la veridicità. Se fosse davvero così, non passerebbe giorno in cui nel mondo non prospererebbero amore e felicità. Non è così. È molto raro. Le ideologie di una volta ormai hanno lasciato il campo all'opportunismo più bieco e gli unici che ancora si arrogano l'orgoglio di un'idea (o presunta tale), sono quelle peggiori. Quelle che non lasciano spazio agli altri. Quelle che inneggiano a una non troppo velata superiorità. Di cosa, non si sa bene.  

Dalle Alpi alla Sicilia, gli orrori del Fascismo sono stati dimenticati troppo in fretta perché alla fine è sempre colpa dell'altro, mentalità questa ancora tragicamente dilagante in Italia. Oggigiorno gli orrori del Fascismo in Italia sono stati in qualche misura ridimensionati in nome di un odio populo-politico verso tutto e tutti (o quasi), dove chiunque è un esperto, sempre pronto a social-sbandierare una pseudo-idea che col Duce vivremmo prosperi, non ci sarebbe corruzione e saremmo una nazione potente. Le fake news al riguardo che si trovano su Facebook poi, sono imbarazzanti, specie per chi ci crede.

Cosa può fare il cinema in tutto questo? Niente, è ovvio. Tra i film più recenti passati sul grande schermo, La veritò negata (2016, di Mick Jackson) con Tom Wilkinson, Rachel Weisz e Timothy Spall, ispirato alla vera vicenda tra la professoressa Deborah Lipstadt e lo scrittore David Irving, ha toccato tasti molto importanti quali la memoria e il negazionismo ma come detto a più riprese, l'arte al massimo può ispirare un cambiamento e non certo esserne il soggetto principale. 
L'arte e dunque anche il cinema possono essere un pezzo del mosaico ma di sicuro finché la gente continuerà a riempirsi la bocca, o meglio i post, di slogan e gli sproloqui senili di persone come la giornalista Oriana Fallaci, capaci solo di istigare all'odio e alla paura, c'è ben poco da fare. Anche e perché dall'altra parte c'è il nulla. Non c'è una cultura vera fondata sui valori degni di una società civile. Quando il gioco si fa pesante, pur di non perdere i voti, si fa un passo indietro sulle tematiche più variegate. Non esiste un fronte compatto capace di respingere l'odio con un'autentica e aggiornata cultura multietnica.

Dopo l'originale Lui è tornato (2015, di David Wnendt), film basato sull'omonimo bestseller satirico di Timur Vermes e ispirato a un immaginifico ritorno nella Germania contemporanea di Adolf Hitler, nel 2018 il regista nostrano Luca Miniero (Benvenuti al Sud, Un boss in salotto, Non c'è più religione) porterà sul grande schermo il remake italiano con protagonista ovviamente Benito Mussolini. Posso già immaginare che le reazioni saranno molto diverse tra il pubblico delle ex-Potenze dell'Asse e temo andranno nella direzione opposta.

Sono passati più di 72 anni da quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa scoprirono il campo di concentramento di Auschwitz ma per ancora troppa gente sono solo fandonie montate. E in Italia poi, è stato impiccato un grande uomo per mettere al governo dei farabutti. “Lui toglierà loro la libertà e loro l'ameranno per questo” sentenziava preoccupato il senatore Gracco (Derek Jacobi) ne Il Gladiatore (2000, di Ridley Scott). Quello era “solo” un film dopo tutto. Già, ma perché allora è ancora così dannatamente vero?

Lui è tornato (2015, di David Wnendt)
 La verità negata (2016, di Mick Jackson
La signora dello zoo di Varsavia (2017, di Niki Caro)

mercoledì 22 novembre 2017

Hayao Miyazaki, l'animazione infinita

65° Mostra del cinema di Venezia - il regista Hayao Miyazaki © Federico Roiter
Hayao Miyazaki è tornato a lavorare. A breve uscirà il corto Boro il bruco, in CGI. Kaku Arakawa ce ne racconta la genesi col documentario-intervista Never-Ending Man: Hayao Miyazaki (2017).

di Luca Ferrari

Hayao Miyazaki si è ritirato dal mondo del cinema. La notizia non è certo una novità. Ma può un pozzo creativo come il premio Oscar per il Miglior film d'animazione La città incantata (2001) pensare davvero di restarsene con le mani in mano fuori finché mente & corpo girano ancora? No, non è possibile. Eccolo dunque tornare (leggermente) indietro sui suoi passi e calarsi in una nuova avventura, il corto di "Boro il bruco" in CGI (computer-generated imagery). Come ci sia arrivato, ce lo racconta Never-Ending Mad: Hayao Miyazaki (2017, di Kaku Arakawa), distribuito da Nexo Digital.

Sigaretta sempre in bocca. Tazza di un non imprecisato liquido (probabile caffè). Si comincia con i saluti del produttore dello Studio Ghibli e lo stesso Miyazaki al pubblico italiano. “È stato uno schizzo. Disegno per divertimento”. Hayao sembra davvero arrivato al capolinea. Per sua stessa ammissione, non si ritiene più in grado. “Voglio creare qualcosa di straordinario ma non so se sono in grado di farlo” ammette a metà strada tra il divertito e lo sconsolato.

Sul grande schermo si susseguono brevissimi frammenti dei suoi indiscussi capolavori a cominciare da Nausicaa della Valle del vento (1984), tornato due anni fa sul grande schermo. Ecco poi i protagonisti de Il mio vicino Totoro (1988), Kiki - Consegne a domicilio (1989, anch'esso riproposto di recente), le inimitabile peripezie volanti di Porco Rosso (1992), l'ecologista Principessa Mononoke  (1997) fino ai più recenti Il castello errante di Howl (2004) e Si alza il vento (2013).

Dal passato al presente. Lì, sulla carta c'è lo schizzo di Boro il bruco. “Farò un corto in CGI”. Caratteristica dello Studio Ghibli, co-fondato da Miyazaki nei lontani anni '70, quella di realizzare tutti i disegni a mano.  Adesso i tempi sono cambiati e bisogna fare i conti con l'era digitale. Cambiano gli strumenti ma non l'uomo alla base dell'invenzione e con lui non si scherza, né allora né oggi. “È importante disegnare esseri umani completi” spiega, “Ho sempre creato panorami mai visti. Adesso sono attratto da quelli insignificanti. Sarà l'età”.

Capitolo dopo capitolo, Arakawa ci mette sempre più a stretto contatto con Miyazaki, un “arzillo vecchietto” con ancora un po' di voglia di darsi da fare. I problemi non mancano. Ciò che sgorga dalla sua matita non trova l'esatta comprensione nelle giovani generazioni già espertissime della tecnologia digitale più avanzata. Un po' si spazientisce. Un po' vorrebbe mollare tutto. “Preferisco morire pensando che devo continuare a vivere” scandisce deciso ed energico. Vorrebbe davvero chiudere ma non ci riesce. “Voglio una copia di me stesso” sentenzia.

Hayao Miyazaki, un legame profondo mi unisce al regista giapponese. Per la prima volta inviato stampa al Festival del Cinema di Venezia, quella era la 65° edizione. L'anno in cui fu presentato in anteprima in concorso Ponyo sulla scogliera. Sgommando su e giù per le sale e le conferenze stampe, d'improvviso me lo trovo lì. Seduto fuori dell'hotel Des Bains. Gli chiedo se lo posso fotografare con in mano una rivista per cui collaboravo dove c'era un articolo scritto dal sottoscritto su di lui. Accettò senza battere ciglio e mi regala un momento di pura cine-magia.

Oggi di Mostre del Cinema vissute in prima linea giornalistica ne ho collezionate dieci. È il 21 novembre 2017 e a Venezia non è una giornata come le altre, è la festa della Salute. Come ogni anno migliaia di donne, uomini e bambini si riversano in pellegrinaggio ad accendere una candela votiva per la Madonna. Non è il mio caso. Questa non è una mia tradizione, non sono credente e non mi sognerei mai di rivolgermi a qualcuno (il cui mito, o presunto tale, è stato ampiamente romanzato) per elemosinare ciò che non sono in grado di realizzare da me.

Se c'è qualcosa in cui posso fermamente sostenere di credere, oltre agli esseri umani, è la fantasia e tutto ciò che ne consegue. Giornata ideale dunque per venire qui, al cinema Rossini, ad assistere alla proiezione di Never-Ending Man: Hayao Miyazaki. Il consueta regalo a Instagram come segno di tributo al grande schermo e posso accomodarmi. Taccuino aperto e proteso con tutta l'anima ad ascoltare “i deliri senili di un vecchio”, come il Maestro giapponese stesso riferisce di sé con non poca autoironia.

Assisto alla proiezione di Never-Ending Man: Hayao Miyazaki (2017, di Kaku Arakawa). Riaccese le luci, sgattaiolo veloce nell'oscurità lagunare. Vorrei già mettermi al lavoro ma è giusto concedere una minima pausa. Lascio che le parole e le immagini sedimentino quel tanto. Mi rintano nei pensieri senza il minimo sforzo. Ripenso a queste parole “Il movimento parte dalla volontà. Bisogna renderlo espressivo”. Oggi, 21 novembre 2017, ho scelto con ferma volontà di essere qui, a imparare dal lavoro di Hayao Miyazaki... per creare qualcosa di straordinario!

Il trailer di Never-Ending Man: Hayao Miyazaki

Venezia, l'ingresso del cinema Rossini con locandina “Miyazakesca” © Luca Ferrari
il regista Hayao Miyazaki in azione
Never-Ending Man: Hayao Miyazaki (2017, di Kaku Arakawa)

venerdì 17 novembre 2017

The Place, il pasto dei mostri

The Place - Gigi (Vinicio Marchioni) e il misterioso uomo (Valerio Mastandrea
Tutti vogliono qualcosa ma fino a dove saremo in grado di spingerci per ottenerlo? Le catene sono limiti. I limiti sono valori. The Place (2017, di Paolo Genovese).

di Luca Ferrari

C'è un uomo che realizza i desideri della gente. Chi sia non ha importanza. Si rivolgono a lui come tanti peones disperati davanti a un dispensatore di miracoli. Tutti lo cercano e quando questi gli dice cosa devono fare per ottenerlo, la reazione è sempre la stessa. Inorriditi, poi però cercano un modo per realizzare e dunque tornare dal loro Salvatore. Enigmatico. Spietato. Metaforico. Fin troppo realistico, The Place (2017, di Paolo Genovese).

C'è un uomo (Valerio Mastandrea). Passa le giornate seduto in una locale indefinito. A turno persone di tutte le estrazioni vengono a parlare con lui. Tutti diversi ma accomunati dalla disperazione e lui sa come risolvere i loro problemi. Apre la sua agenda, li fa parlare e annota i loro pensieri. Poi gli chiede qualcosa in cambio. Non per lui. Devono svolgere un compito. Alcuni provano a protestare ma lui è inflessibile. O così o... puoi rifiutare, dice.

Uno dopo l'altro, vogliono tutti qualcosa. Il poliziotto Ettore (Marco Giallini). Il meccanico Odoacre (Rocco Papaleo). Il padre di famiglia Gigi (Vinicio Marchioni). L'anziana Marcella (Giulia Lazzarini). Suor Chiara (Alba Rohrwacher). La vanitosa Martina (Silvia D'Amico). Il cieco Fulvio (Alessandro Borghi). La moglie Azzurra (Vittoria Puccini) e il piccolo malavitoso Alex (Silvio Muccino). E poi c'è lei, la cameriera del bar, Angela (Sabrina Ferilli). Lei non chiede niente, anzi. Vorrebbe solo conoscere meglio questa persona che vede ogni dì ascoltare gli altri.

Compiti stravaganti, violenti. Perché proprio questo? Perché proprio a me? Ognuno pone delle domande a questo novello innominato. Qualcuno arriva anche a minacciare ma sono parole che trovano il tempo di pochi attimi. La pistola viene rimessa nella fondina e lui prosegue con le sue domande. Vuole sapere come ciascuno intenda procedere e una volta portato a termine l'impegno, cosa ha provato nel compierlo. Sadismo? Curiosità? I desideri prendono forma solo a missione compiuta.

Una fede perduta. Un marito malato. Una bellezza svanita. Una matrimonio da salvare. Un senso da riacquistare. Una donna da conquistare. Tutti nel nostro cammino abbiamo perduto qualcosa e non abbiamo più avuto la forza (o la voglia) di riprendercelo. Ma invece di tirarci su le maniche, che cosa abbiamo fatto? Abbiamo comprato prodotti. Abbiamo puntato il dito. Abbiamo usato filosofie attendiste. Abbiamo permesso che altri ci dicessero cosa fare. Abbiamo lasciato che gli altri decidessero per le nostre vite.

Paolo Genovese cambia registro, e apre l'agenda. La generazione delle menzogne di Perfetti sconosciuti (2016) è scomparsa. Oggi tocca a chi proprio non ce la fa. A chi è disposto a tutto pur di vedere la propria vita cambiare. Oggi siamo dinnanzi a imbonitori di ogni sorta. Una volta le religioni promettevano il paradiso, oggi invece è sufficiente un rossetto, un'adesione politica, un silenzio, una slot machine. C'è chi comanda e chi non deve fare domande e obbedire. Nulla è gratis al mondo. Nulla. Tutto ha un prezzo.

The Place è un luogo reale e metafisico. The Place è dentro ciascuno di noi. The Place ci pone dinnanzi a quelle domande a cui abbiamo volutamente scelto di non rispondere. E se incontrassimo qualcuno capace di darci ciò che vogliamo, quanto saremmo disposti a tollerare? Contro cosa e chi ci dovremmo scontrare? E soprattutto, perché abbiamo dovuto attendere che qualcuno arrivasse per dirlo?

Voglio essere sincero, con voi tutti e il regista. Non ero troppo convinto di andare al cinema e confrontarmi con gli inevitabili spettri di The Place. Un giro di parole con un'amica ed eccomi in sala del cinema Rossini di Venezia (ancora in programmazione fino a mercoledì 22 novembre). In pochissimi fino a quasi all'inizio del film, e poi l'arrivo della massa. Una metafora interessante anch'essa. Uno spunto ulteriore su cui cominciare a riflettere. Un piglio da cui lasciar cadere ogni pregiudizio.

The Place (2017, di Paolo Genovese) apre le porte del girone contemporaneo ai novelli dott. Faust alla disperata ricerca di qualcosa che gli è sfuggito o gli sta sfuggendo. Valerio Mastandrea (Notturno bus, La prima cosa bella, Fai bei sogni) è un perfetto Mefistofele senz'anima né apparenti sentimenti. Gran burattinaio ed esecutore di chissà cosa/chi. Non si fa impressionare dalle suppliche e non ha tempo da perdere. Ma se le sue richieste fossero davvero così impossibili o insostenibili da eseguire, allora nessuno accetterebbe mai... Nessuno, appunto.

Il trailer di The Place

Venezia, dentro e fuori il cinema Rossini a vedere The Place ... insieme a Ciak!© Luca Ferrari
The Place (2017, di Paolo Genovese)

lunedì 13 novembre 2017

Borg McEnroe, la Storia siamo noi

Borg McEnroe - John McEnroe (Shia LaBeouf) e Bjorn Borg (Sverrir Gudnason
Se gli dei dell'Olimpo avessero giocato a tennis, Marte sarebbe stato Bjorn Borg e Apollo, John McEnroe. Dall'erba di Wimbledon al grande schermo, Borg McEnroe (2017, di Janus Metz).

di Luca Ferrari 

È la finale che tutti avrebbero voluto vedere sul centrale di Wimbledon nel 1980. Da una parte il quattro volte campione uscente, la macchina svedese Bjorn Borg. Dall'altra il rampante bad boy americano, l'irascibile e geniale John McEnroe. Così fu ed è stata leggenda. Una vera, purissima leggenda. Una partita finita al quinto set che neanche un copione avrebbe saputo realizzare/immaginare così grandiosa. Questo è Borg McEnroe (2017, di Janus Metz Pedersen).

È una (finalmente) serata freddina a Venezia. Ancora prima rispetto ai miei normali standard cinematografici, mi presento in sala con larghissimo anticipo. Lì fuori, davanti all'entrata del cinema Giorgione non passa anima viva per qualche secondo. Il tempo necessario per stagliarmi di profilo dinnanzi all'imponente locandina e guardare quei due volti. Le facce di Shia LaBeouf e Sverrir Gundnason interpreti di John McEnroe e Bjorn Borg. Il finale lo conosco. L'inizio e il percorso un po' meno. Adesso tocca al grande schermo. Adesso è il mio turno di Borg McEnroe.

Eccoli, sono loro. In campo. L'un contro l'altro. Numero 1 e 2 del mondo si presentano nel tempio del tennis con l'aspettativa mondiale di giocare la finale perfetta. Gli stati d'animo sono agli antipodi. Bjorn Borg (Sverrir Gudnason) è alla ricerca del 5° titolo consecutivo, John McEnroe (Shia LaBeouf) del primo. Bjorn appare dilaniato da demoni personali, John li fa esplodere in faccia a pubblico e arbitro, incurante di fischi e della reputazione che si sta ormai facendo. Match dopo match, arriva il momento della finale.

Ma chi è questo (in apparenza) inossidabile campione dalla lunga chioma bionda con fascia sopra la fronte? Un semplice ragazzino che palleggiava contro il muro, dal pessimo carattere, mal visto dagli altri coetanei e criticato perfino per avere il rovescio bimane. Più da proletario giocatore di hockey che non da aristocratico tennista. Lennar Bergelin (Stellan Skarsgard) però, il capitano della squadra svedese di Coppa  Davis, lo ha notato e pensa potrebbe fare grandi cose sui campi da tennis.

Ma chi è questo boccolone e arrogantello giocatore deciso a detronizzare il Re del tennis mondiale? Mangia hamburger e ascolta il rock. Alza sempre i toni. Non c'è arbitro che possa avere un pomeriggio tranquillo con lui. I tifosi lo fischiano senza pietà? E chi se ne frega. Borg, Borg e ancora Borg. Se lo sente sempre sbattere in faccia e forse è arrivato il momento che parlino allo svedese di lui. Ma questa sarà la Storia che lo dovrà decidere e non certo l'ennesima sfuriata.

Borg McEnroe è un film possente. Unica grande pecca, tropo incentrato sull'atleta scandinavo. Che cosa ci racconta del John pre-Wimbledon? Che i suoi genitori volevano eccellesse a scuola e si divertivano a sfoggiarlo davanti agli amici altolocati. Niente di più. Bjorn invece lo troviamo ragazzino reietto, adolescente selezionato e un giovane uomo. Lo si scopre nel match che lo consacrerà al mondo, rivelando retroscena psicologici a dir poco cruciali della sua carriera. E Mac? Poco altro.

Non è da meno il presente. La telecamera del regista danese si concentra quasi esclusivamente sul caratteraccio dello yankee, capace di prendere (anche) a mal parole in semifinale il connazionale Jimmy Connors (Tom Datnow) e puntando al difficile rapporto col compagno di doppio, Peter Fleming (Scott Arthur), al momento di sfidarsi in singolare nell'alltrettanto importante match di quarti di finale, senza però approfondire.

Tutt'altro trattamento per il freddo avversario. L'allenatore, la pressione dell'invasiva macchina del marketing e l'imminente nozze con la fidanzata Mariana Simionescu (Tuva Novotny). Tutto sulle spalle di Borg e McEnroe che fa invece? Va a bere ai party insieme al festaiolo collega australiano Vitas Gerulaitis (Robert Emms), facendo come gli pare dentro e fuori dal campo.

Davvero un caso curioso quello del tennis sul grande schermo. Flirt a dir poco leggiadri e molto spesso impacciati (per non dire imbarazzanti), oggi, a distanza di neanche un mese due film usciti al cinema. Entrambi basati su sfide realmente accadute, mentre La battaglia dei sessi con Emma Stone e Steve Carell ha più spessore sociale, Borg McEnroe è un monologo a due voci. Due urla nella medesima tempesta della luce più assordante. La battaglia dei sessi è una sfida di racchetta e “diritti”, Borg McEnroe un concentrato di adrenalina psicologica, personalità e nervi.

Saranno molti gli amanti dell'antica “pallacorda” che si presenteranno in sala per assistere alla proiezione di Borg McEnroe (2017, di Janus Metz) e non rimarranno delusi. Le immagini, o meglio le gesta della finale, ottimamente riproposte inclusi svariati match point di quell'epico quarto set, portano davvero lo spettatore nel campo. La scena di John a terra e il passante di Borg non sono più solo l'emblema di una pagina immortale di tennis supremo, ma anche il cinema di Borg McEnroe, da oggi e per sempre sugli schermi del mondo intero.


Il trailer di Borg McEnroe

Venezia, la locandina di Borg McEnroe fuori dal cinema Giorgione © Luca Ferrari
Borg McEnroe - il campione americano John McEnroe (Shia LaBeouf
Borg McEnroe - il campione svedere Bjorn Borg (Sverrir Gundnason